giovedì 30 settembre 2010

Vostok, parte prima


Josef Binder e Signora

La stazione ferroviaria di Venezia Mestre è stata la mia porta d’Oriente. A essere precisi, sono partito da Torino Porta Nuova, ma quella è una stazione priva di sapore internazionale, essendo Parigi l’unica destinazione oltre confine che compare sui tabelloni delle partenze, mentre a Mestre gli schermi annunciano, fra gli altri, treni per Budapest, Bucarest, Wien. La sola vista di carrozze delle compagnie ferroviarie ungheresi e romene mi ha provocato una scarica di quell’ormone, di cui non conosco il nome e non posso provare l’esistenza, che il nostro organismo secerne in occasione dell’inizio di un viaggio importante.
La seconda porta l’ho varcata in Austria, nel momento in cui il treno Linz-Sommerau ha oltrepassato il Danubio: da quando, “ragazzo di mappe appassionato”, vidi per la prima volta una cartina dell’impero di Augusto, associo il nome di questo fiume alla nozione di confine, oltre il quale si apre un nuovo mondo da esplorare.
Sarà un viaggio in cui attraverserò altri confini, lungo i quali si sono fronteggiati, e spesso combattuti, impero romano d’occidente e d’oriente, austro-ungarici e ottomani, tedeschi e slavi, cattolici e ortodossi, NATO e Patto di Varsavia. Cercherò di capire quali eredità hanno lasciato quelle frontiere negli europei che hanno tenuti separati e che oggi si stanno riunendo in un pacifico esperimento politico a cui la storia non aveva ancora assistito. Avrò bisogno dell’aiuto di chi l’Est lo abita nel presente e di chi l’ha abitato nel passato; non potrò fare a meno delle loro storie né della loro Storia. In un viaggio tutti gli incontri hanno lo stesso valore e tutti sono indispensabili: persone comuni o celebri, uomini in carne e ossa o figure che sopravvivono nei ricordi, nei libri, sulle lapidi.
Ceske Budejovice, Repubblica Céca, è la prima tappa di questo viaggio. L’agenzia viaggi CKM, di fronte alla stazione ferroviaria, mi ha fornito l'indirizzo di un privat, un affittacamere. La casa risale all’inizio del Novecento, come tutto il quartiere adiacente alla stazione a cui appartiene. Tre scalini con un bidone dell’immondizia in metallo davanti alla porta d’ingresso, oltrepassata la quale ci si trova in uno spazio su cui si affacciano la porta della mia camera e quella del bagno, due rampe di scale che conducono rispettivamente al piano superiore e al giardino retrostante, e la porta dell’appartamento dei signori Binder, preceduta, lungo la parete, da un lavandino, una scarpiera e una mensola con cesti di patate e verdure colte nell’orto.
La signora Binder parla soltanto céco, il marito Josef russo e tedesco, ma non inglese. Io non conosco né il russo né il tedesco, soltanto l’inglese. La contrattazione si è ridotta all’accettazione, da parte mia, di una cifra scritta, da loro, su un foglietto. I padroni di casa hanno più di sessant’anni e, con le loro conoscenze linguistiche, riassumono la storia del loro Paese dagli anni Trenta al 1989.
Nella stanza che mi assegnano c’è tutto: una panchetta e una spazzola per pulirsi le scarpe, un angolo cottura con fornello a gas, pentola, bollitore, posate, bustine di tè, zollette di zucchero, sale, tazze, apribottiglie, un tagliere e un coltello da salame, scatole di fiammiferi, bicchieri, piatti, carta stagnola, spatola di legno, un lavandino con miniboiler, spugna, sapone, detersivo, specchio, una pianta in vaso, un asciugamano, un appendiabiti sul quale è infilzato un rocchetto di filo, un tavolino e due poltroncine, un letto con un enorme cuscino e un piumone, un altro tavolino con una radiosveglia sintonizzata su una stazione rock. A una parete è appesa una mensola su cui ci sono due origami, un sasso e una piantina che cresce in un bicchiere d’acqua. La signora Binder ha decisamente il gusto per le piccole attenzioni.
Nel quotidiano italiano che mi è rimasto nello zaino leggo il coccodrillo di Gina Lagorio e ciò che più mi colpisce è il riferimento al libro che lei ha scritto dopo la morte del marito per esprimere ciò che non era riuscita a dirgli in vita. Lui era morto quando, quarantenni, presi forse dalle incombenze quotidiane, rimandavano quei discorsi che, incautamente, credevano di poter fare da vecchi. Ho fatto lo stesso ieri mattina, a Torino, con una donna con cui era bello passeggiare senza dire nulla, semplicemente godendo della sua bellezza e della sua presenza. È anche per questo motivo che si rinviano le parole, per non interrompere momenti di serenità.

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