venerdì 10 settembre 2010

Vostok, parte quattordicesima


La città prostituta


Il viaggio di ritorno in Europa è stato insignificante, come ogni spostamento in aereo, e per di più ho dovuto separarmi da Gianmaria e Barbara. Ora sono a Brno. Qui studiò Josef Hoffmann e qui fu incarcerato Silvio Pellico. La Repubblica Céca mi è familiare, non tanto perché ci sono già stato, quanto perché le vie, i palazzi, i parchi, i tram, le persone hanno un aspetto che oserei definire torinese. Perché provo questa sensazione a Brno e non a Varsavia? È per il modello di città che ho con il tempo assorbito?
Le città europee nascono, in epoca romana o medievale, come spazi chiusi, diversi rispetto a ciò che c’è fuori. Vuoi per la regolarità della pianta ortogonale o per la presenza delle mura che seguono e amplificano le curve delle colline su cui sorgono, lo spazio al loro interno è organizzato e ordinato.
Ciò sicuramente trasmette un senso di sicurezza, la città non disorienta, anzi, in essa è facile orientarsi, e protegge dal disordine esterno, di qualunque origine esso sia. Liberi da queste preoccupazioni, l’orientamento e i pericoli esterni, i cittadini non partono da zero nella loro costruzione di un mondo individuale in cui esprimersi e, nello stesso tempo, trovare un senso alle proprie attività. Le sicure fondamenta di questo mondo sono già gettate. Ci si può adesso dedicare a ciò che dentro di sé è, allo stesso tempo, più profondo e più raffinato, sia questo la pittura, l’architettura, il commercio o altro.
È chiaro che con il passare dei secoli si sedimentano gli strati, che rafforzano le fondamenta e, così, permettono le ricerche più ardite dei cittadini delle nuove generazioni: cattedrali gotiche, parchi, metropolitane, grattacieli e shopping center sono tutte migliorie che vengono apportate alla struttura fondamentale.
Cosa accade al viaggiatore che giunga alle mura, reali o ideali, della città? Essa gli offre protezione e ristoro ma vuole qualcosa in cambio. Gli si mostra e chiede di essere ammirata. L’ospitalità è fatta anche di questo: ci si comporta generosamente per costruirsi una buona reputazione che, a sua volta, può essere spesa affinché l’ospitalità venga ricambiata o costituire un valore aggiunto, una specie di marchio d’origine, per i prodotti che da quella città partono per essere venduti in tutto il mondo.
Per esempio, ciò che Parigi dà al viaggiatore in termini di fascino e benessere, si trasferisce negli articoli più o meno lussuosi che poi verranno acquistati da chi vorrà, attraverso l’oggetto, rivivere l’atmosfera vissuta lungo la Senna. La città stessa può trasformarsi in prodotto, scambiato sul mercato del turismo, e anche in questo campo Parigi la sa lunga.
Ricapitolando: la città crea e distingue uno spazio ordinato, accoglie e protegge, si mostra, per sana vanità e per accorto calcolo.
Ora, che tipo di cittadini sono all’origine della città che ho descritto? Facciamo un passo indietro: le funzioni a cui la città assolve sono quelle che soddisfano i bisogni dei suoi abitanti. Quindi, paura del caos e dei pericoli esterni, naturali e/o umani, devono essere presenti. I cittadini, poi, devono anche sentire la necessità di costruirsi una buona reputazione, un’immagine attraente, devono, insomma, sentire il bisogno di piacere agli altri, di fare colpo su di essi. Se il loro potere, inteso semplicemente come capacità di sopravvivere e riprodursi, si fondasse sull’uso della forza, non avremmo città, ma inaccessibili fortezze, costruite per incutere timore.
Perché nasca la città devono esserci persone che basano il proprio potere sul contatto e lo scambio con estranei, a cui devono dare qualcosa, per esempio ispirare fiducia, per avere in cambio ciò di cui necessitano. Ovviamente, sto descrivendo i ceti mercantili, a cui fa capo anche quel particolare tipo di commercio che è la diplomazia, in quanto scambio di favori politici.
È così che i cittadini, attraverso i loro magistrati, affidano a tecnici specializzati il compito di edificare città che, per la loro conformazione, spingano i forestieri a spendervi i loro soldi.
Sto cercando di dimostrare che non c’è città dove non c’è classe mercantile; tentiamo allora una controprova. Si può parlare di città per i quartieri di edilizia popolare nel mondo capitalista, per i resti dell’urbanistica sovietica o per gli agglomerati urbani del Messico o del Medio Oriente? Nei loro abitanti, in quanto salariati o disoccupati, manca il bisogno di “piacere”: quale vantaggio economico deriverebbe loro dallo spendere del denaro per abbellire i quartieri in cui vivono? Il loro stipendio non aumenterebbe, anzi, ne risulterebbe un impoverimento.
Che cosa costruiscono, invece, i commercianti a partire dall’industrializzazione ottocentesca? Innanzitutto, i viali, i boulevards, che non sono più le strette strade delle città medievali. Non è solo una questione di metri, il viale trasmette sicurezza e fiducia, chiunque è il benvenuto. Seconda differenza: sulla strada non si affacciano più le botteghe, in cui si produceva ciò che si vendeva, ma i negozi; la produzione è stata spostata in altre zone della città. Questo fatto conferisce eleganza e civetteria alla strada, che può così divenire luogo di ostentazione in cui si sottolineano gli status sociali.
Allo stesso scopo serve la diffusione di caffè, teatri, cinema e altre forme di divertimento, che sostituiscono le antiche feste nelle quali ci si divertiva tutti insieme, una volta all’anno.
Sia nell’area anglo-francese che in quella tedesca e austro-ungarica le stazioni ferroviarie diventano i nuovi punti cardinali e il viale della stazione è una delle arterie principali, o addirittura la principale per il passeggio. Si diffondono l’architettura di qualità nell’edilizia privata e la presenza di quartieri in cui gli eccentrici sono confinati ed esibiti allo stesso tempo.
Il Museo Etnografico di Budapest sembra sostenere le teorie che Jarrek e io abbiamo elaborato: evidenzia l’affermazione della classe media alla metà del XIX secolo e la consistenza della componente calvinista, che nel 1890 rappresentava il 30% degli ungheresi. Riforma e ceto medio: il risultato è che Budapest non è Varsavia, anche perché fin dal 1808 l’Arciduca Giuseppe d’Absburgo aveva istituito la Commissione per l’Abbellimento della città, con lo scopo di impostare una pianificazione urbanistica che impedisse uno sviluppo incontrollato.
Ecco, penso che Città del Messico, Gerusalemme e Varsavia non siano delle vere città come Torino, Milano, Trieste, Budapest, Barcellona e Brno, perché ho introiettato i modelli della seconda rivoluzione industriale e in una città cerco il possesso, a pagamento e al sicuro, della bellezza.
Bratislava non offre molto dal punto di vista artistico ma è molto generosa con chi voglia passeggiare in affollate vie pedonali e cenare in ristoranti all’aperto nel centro storico. L’ufficio informazioni sa che il turismo di massa si dirige là dove si possono soddisfare bisogni elementari e nei suoi opuscoli segnala i bar frequentati «by some of Bratislava’s hottest women». Per me questa tappa segna il ritorno al Danubio e per celebrarlo cerco la vineria Klastorna descritta da Claudio Magris nel suo Danubio. Né l’opuscolo di cui sopra né le guide internazionali la nominano e ne deduco che non si tratta di un locale per sbronze o avventure galanti a basso costo. La trovo, come suggerisce il nome, sotto il chiostro della chiesa dei francescani. È accogliente e la lista dei vini è invitante, ma, proprio per questo, non me la sento di cenarci da solo. Opto per un ristorante dalle volte basse, con molte foto alle pareti e un via vai turistico che permettono, nell’attesa del cibo, di distrarsi e non sentire la solitudine.
Dopo cena, scopro, dietro la cattedrale di San Michele, una piazzetta deserta: una scalinata la separa dalla via affollata e vi si affaccia un edificio non ristrutturato, forse l’unico rimasto nel centro storico. Ha le pareti scrostate e le finestre sigillate da pannelli dipinti con soggetti tratti dai quadri di Van Gogh, silhouette di cani e, al pianterreno, una scalinata trompe l’oeil. Qui non ci sono distrazioni, la solitudine è inevitabile.

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