A Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza, sorse nel 1940 il più grande campo di concentramento italiano, costruito per internare ebrei stranieri e cittadini di nazionalità nemiche dell'Italia, in particolare Greci e Cinesi. Negli edifici del campo, nel 2004 è stato inaugurato il Museo Internazionale della Memoria, che illustra le vicende degli internati. Fra queste, quella dei circa 500 naufraghi del Pentcho. Si trattava di ebrei dell'Europa centro-orientale, in maggioranza cecoslovacchi e rumeni, che il 18 maggio 1940 erano partiti da Bratislava a bordo di un battello fluviale a ruota, il Pentcho, con l'obiettivo di raggiungere la Palestina.
Decisero perciò di proseguire a bordo del Pentcho e, battendo bandiera bulgara in quanto la Bulgaria era ancora un Paese neutrale, il 21 settembre 1940 entrarono nel Mar Nero. Superati gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, si avventurarono nel Mar Egeo. Sempre in cerca di cibo e carburante, tentarono, senza successo, di attraccare a Lesbo e Samo. Continuarono la navigazione in direzione sud-est, ma sorse il problema della scarsità di acqua potabile, che cercarono di risolvere pompando metà dell'acqua contenuta nella caldaia del motore, sostituendola con acqua di mare. I motori, però, non ressero e il 9 ottobre il serbatoio si ruppe. Il Pentcho navigò alla deriva finché non si schiantò sull'isolotto di Kamilonisi, su cui i passeggeri sopravvissero per nove giorni bevendo l'acqua piovana che trovarono in una cava. Per chiedere aiuto, accesero dei fuochi e stesero delle lenzuola sulle quali scrissero S.O.S. con il lucido da scarpe.
Il terzo giorno, cinque giovani del gruppo salparono in cerca di aiuto a bordo di una scialuppa, ma vennero trascinati alla deriva verso l'Egitto e la loro missione fallì. Il decimo giorno, il 18 ottobre, dopo che un aereo italiano aveva sorvolato l'isola e li aveva avvistati, i naufraghi vennero raggiunti da nave italiana. Era la nave da trasporto della Regia Marina "Camogli", che, salpata da Porto Lago nell'isola di Lero, aveva fatto rotta verso Stampalia (Astypalea), l'isola più occidentale del Dodecaneso, e quindi verso sud fino all'isolotto di Kamilonisi.
Al comando del "Camogli" vi era Carlo Orlandi, nato a Pesaro il 17 settembre del 1888. Orlandi coordinò personalmente le operazioni di recupero dei naufraghi, le quali, effettuate con l'utilizzo di alcune barche a remi che facevano la spola tra lo scoglio e la nave, si protrassero sino a notte fonda. Uno dei naufraghi scrisse nel maggio del 1941 un rapporto in cui spiegò che le barche potevano contenere al massimo 8 persone, le onde erano impetuose e occorrevano oltre 15 minuti per raggiungere la nave.
Concluso il salvataggio, a mezzanotte passata, Orlandi ordinò di far rotta su Rodi, all'epoca possedimento italiano. L'isola distava oltre cento miglia dal luogo del naufragio e il viaggio notturno avvenne a luci spente (per non essere avvistati da aerei, navi o sottomarini inglesi, che avrebbero fatto fuoco sull'imbarcazione nemica anche se stracolma di naufraghi), in condizioni di alto rischio per l'equipaggio a causa della presenza di mine lungo l'intero tratto di mare. La coraggiosa decisione presa da Orlandi fu determinata dalla presenza fra i naufragi di molte persone in precarie condizioni di salute, per le quali non ricevere cure immediate avrebbe potuto essere fatale. Il "Camogli" approdò nel porto di Rodi dopo le ore 13 del 19 ottobre, iniziando subito le operazioni di sbarco delle persone salvate. Dopo circa sei mesi di internamento a Rodi, gli ebrei del Pentcho vennero trasferiti al campo di Ferramonti. Qui rimasero anche dopo l'ottobre del 1943, quando gli Alleati liberarono l'Italia meridionale, e soltanto al termine della guerra riuscirono a partire nuovamente su una nave per la Palestina.
Dopo il salvataggio dei naufraghi, il "Camogli", sempre comandato da Carlo Orlandi, restò a operare tra le isole dell'Egeo, anche dopo l'8 settembre 1943. Secondo le informazioni presenti nell'Archivio storico della Marina Militare, fu affondato dai tedeschi il 30 settembre 1943, nei pressi dell'isola di Patmo.
Carlo Orlandi fu invece fatto prigioniero dai tedeschi il 18 novembre 1943. Avendo rifiutato di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, fu deportato in Polonia. Fu immatricolato con il numero 105023 nello Stalag 366, ubicato a circa cento chilometri a est di Varsavia, in prossimità dell'attuale confine con la Bielorussia: un lager in cui, in condizioni disumane, sono morti 25 000 prigionieri di guerra, di cui 2000 italiani. In seguito alla controffensiva sovietica, fu trasferito in Germania, probabilmente a Dachau. Sopravvisse e nel 1946 tornò in Italia dalla prigionia. Si stabilì a Napoli, città della moglie Giulia Di Chiara, dove apprese che il figlio Averardo era stato trucidato dai tedeschi, poco più che ventenne. Ad Averardo Orlandi venne in seguito riconosciuta una pensione, che il padre Carlo non incassò mai, destinando l'assegno mensile alla vicina parrocchia dei santi Cosma e Damiano. La pensione di Carlo Orlandi, invece, a causa di intoppi burocratici tardò a essergli riconosciuta. Rimasto senza impiego e privo di altre fonti di sostentamento, Orlandi si adattò a lavorare come contabile presso un colorificio della zona. Morì a Napoli il 26 gennaio del 1970, senza mai aver potuto incontrare nessuno dei naufraghi a cui aveva salvato la vita.
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