Lungro
è uno dei centri principali della comunità
arbëreshë,
ovvero i discendenti degli albanesi che si stabilirono nella penisola
italiana a partire dal XV secolo, per sfuggire all'invasione
dell'impero bizantino da parte degli Ottomani. Dall'Abruzzo alla
Sicilia, sono almeno centomila le persone che parlano la lingua
arbëreshë.
Fra
di loro, Anna Stratigò, musicista e cantante, che a Lungro gestisce
la Casamuseo del Risorgimento: un edificio risalente al Cinquecento,
da allora dimora di una quindicina di generazioni della famiglia
Stratigò.
Il
nome fa riferimento alla storia di un avo di Anna, il poeta Vincenzo,
nato a Lungro nel 1822; antiborbonico e poi mazziniano, nel 1859
organizzò con altri rivoluzionari lungresi una sommossa contro le
autorità borboniche, l'anno successivo si unì ai volontari di
Garibaldi e partecipò alla battaglia del Volturno. Dopo
l'unificazione dell'Italia rimase deluso dall'azione dei governi
nazionali e, pur continuando la carriera militare, si dedicò agli
studi di economia, politica, storia e geografia, fondò scuole serali
e aderì al movimento socialista.
La casa di Anna Stratigò riunisce
i suoi cimeli risorgimentali con altri ritratti e documenti di
familiari, dall'antenato che nel Settecento insegnò all'Accademia di
Cosenza fino alla madre di Anna, che comparve sulla copertina di un
numero del mensile «i Grandi Viaggi» del 1956, dedicato alla
Calabria.
Il
tratto caratteristico dei lungresi, mi spiega Anna, è la socialità,
che si esprime in varie forme: qui ha attecchito l'usanza di
interrompere nel pomeriggio le attività per riunirsi a bere il mate,
forse introdotto dai garibaldini provenienti dall'Argentina; la
popolazione arbëreshë si ritrova volentieri per suonare e cantare,
in particolare in occasione del carnevale, quando si formano gruppi di
suonatori che vanno di casa in casa e a ogni sosta si beve vino e si
mangia pane e salame.
A
Guardia Piemontese si parla il guardiolo, unico caso di lingua
occitana nell'Italia meridionale, perché qui si insediarono, fin dal
XIII secolo, gruppi di valdesi perseguitati in Francia e in Piemonte
dai sovrani cattolici. La Calabria attraeva i valdesi per la fama di
Gioacchino da Fiore e per la tolleranza religiosa, eredità
dell'epoca di Federico II di Svevia: nella regione convivevano ebrei,
arabi, greci e cattolici. La situazione mutò drammaticamente a metà
del Cinquecento, sotto il regno di Filippo II di Spagna, che
perseguitò i protestanti aprendo i suoi domini alla fanatica ferocia
dell'Inquisizione, guidata da uno dei più sanguinari esseri umani
della storia, il cardinale Ghislieri. La notte del 5 giugno 1561 le
truppe cattoliche uccisero così tanti valdesi nel borgo di Guardia
che il sangue versato nelle vie giunse a oltrepassare la porta
principale del paese, oggi chiamata Porta del sangue.
Nell'edificio
accanto a essa, si trova il Centro di Cultura “Gian Luigi Pascale”,
sede del Museo Valdese, ristrutturato e riaperto nel 2011 con i fondi
dell'otto per mille della chiesa valdese, che ne finanzia da allora
le attività.
Oltre
alla tragica storia dei valdesi di Calabria, il responsabile del Museo Valdese, Fiorenzo Tundis, mi
illustra anche la loro eccellenza nell'arte della tessitura: affinché
questo patrimonio culturale non si perdesse, Fiorenzo Tundis ha coinvolto l'ultima signora esperta ancora attiva in paese e con
lei ha aperto un laboratorio di taglio, cucito e di tessitura, dove si
insegna a realizzare nuovi esemplari di abiti tradizionali e a
utilizzare varie
fibre naturali, fra le quali quelle della ginestra.
Il
Museo della lingua greca di Calabria, aperto nel 2016 a Bova, è intitolato
al glottologo tedesco Gerhard Rohlfs, colui che negli anni Trenta
dimostrò che la lingua grecanica parlata in Calabria aveva origine
magno-greca e non era, come sostenuto dai linguisti italiani del
tempo, frutto della conquista bizantina in epoca medievale. A partire
dal ritrovamento di termini di origine dorica persistenti nella
parlata delle zone esplorate, Rohlfs smontò la tesi, tanto cara agli
accademici dell'epoca fascista, che i Romani avessero completamente
latinizzato l'Italia meridionale. Non si curò degli attacchi dei
pedanti glottologi fascisti, a cui rispose che «soltanto chi abbia
visitato personalmente a dorso di asino su sentieri impraticabili
paesi così remoti come Roghudi, Rocaforte, Bova, Africo,
Pentedattilo, potrà comprendere perché precisamente in questa zona
la lingua greca abbia potuto resistere tanto tempo».
Rohlfs
viaggiò estesamente in Italia, in Grecia e nella regione dei
Pirenei; già nel 1914, ventiduenne, attraversò l'Italia dal
Piemonte alla Puglia; nel 1921 compì il primo viaggio in Calabria,
dove tornò negli anni successivi, fino al 1933, e si spinse anche
nei paesi grecanici dell'Abruzzo e della Sicilia. Nel 1940 andò in
Corsica; riprese gli studi in Calabria e Sicilia nel 1948, ritornando
più volte nelle due regioni, l'ultima nel 1983.
Se
la concezione archeologica del proprio lavoro Rohlfs la manifesta fin
dal titolo del suo libro principale, Scavi linguistici della Magna
Grecia, il suo metodo risulta evidente dalle fotografie in mostra
nel museo di Bova, che lo ritraggono seduto a un tavolino,
all'esterno di case e bettole, in compagnia di uomini anziani, donne
e bambini, intento a riportare la conversazione sul proprio quaderno.
“U tedescu” aveva capito che le persone che intervistava avrebbero
comunicato più volentieri se coinvolte in un rituale quasi magico, e
lui lo inscenava, conciliando nobiltà e affabilità.
La
scoperta della popolazione calabrese di lingua greca da parte di
studiosi e linguisti, tuttavia, è ancora precedente e risale al
1820, quando in provincia di Reggio Calabria giunse il giovane
tedesco Karl Witte. Fu lui, attraverso un articolo che pubblicò
l'anno successivo, a far conoscere l'esistenza di questa area
ellenofona.
La
storia della lingua greca di Calabria, però, non si svolge soltanto
all'indietro e nelle sue ultime sale il Museo “Gerhard Rohlfs” dà
spazio ai poeti grecanici del Novecento: Bruno Casile, Agostino
Siviglia e soprattutto Mastr'Angelo Maesano. Il soprannome di Mastro
venne a quest'ultimo dalla professione di muratore; nato nel 1915 e
segnato dalle esperienze della guerra e del campo di concentramento,
è stato considerato un esempio di saggezza. Sua è Vienimi
vicino, la poesia per molti più emblematica della cultura
grecanica, i cui primi versi, tradotti in italiano, sono: «Tu
ragazza che vieni dalla montagna / e io ragazzo che vengo dalla
marina, / ora che sei diventata grande / io voglio sposarti. / Vieni,
vienimi vicino, / perché io sono solo. / Il fiume scende dai monti /
e scende giù in marina, / anche i pesci sono assetati / e vengono a
bere l'acqua dolce».