giovedì 13 ottobre 2022

Dar Am Taïeb - Musée Privé d'Art Contemporain

 

Sono arrivato tardi, di otto mesi. Taïeb Ben Hadj Ahmed, il maggiore artista contemporaneo di Sousse e fra i più importanti della Tunisia, è morto a febbraio, a soli 73 anni.

Il museo a cui ha dato vita è ancora aperto. È la sua casa, in cui ha fatto crescere le sue opere. Dalla Medina della città, bisogna uscire dalle mura attraverso la porta occidentale, Bab El Gharbi, e seguire le frecce marroni. Una passeggiata di una decina di minuti.
A Dar Am Taïeb mi accolgono la vedova, una delle figlie e una nipotina. Mi aprono, una dopo l'altra, le tante stanze in cui l'artista ha accumulato le sue opere.

Ci sono gli "uomini farciti", il cui corpo è formato da taniche piene di oggetti, con i quali Taïeb affrontò le questioni del consumismo e dell'inquinamento che ne deriva.

Ci sono le figure dell'antimilitarista "Marcia verso l'inferno ".


Ci sono figure umane e animali.




Un paio di tartarughe sono davvero vive, e mi stupisco quando ne vedo una muovere la testa fuori e dentro il carapace.

Altre opere si potrebbero definire surrealiste.

Tutte le sue creazioni sono realizzate con materiali di recupero, che l'artista scovava o che gli venivano regalati in grandi quantità, come le centinaia di elmetti dell'esercito ammassati in vari angoli della casa-museo.


Molti sono lavori che mostrano la bellezza che nasce dall'accumulazione. Un pennello da solo può essere insignificante, ma decine di pennelli, applicati su un supporto, diventano una bella immagine.



Lo stesso vale per le sveglie, le lampade, le macchine fotografiche, gli asciugacapelli, gli occhiali e decine di altri oggetti.










La figlia di Taïeb mi racconta che da giovane suo padre lavorò come cuoco in un ristorante. C'è ovviamente una continuità tra il cucinare e il creare opere d'arte. Taïeb ha sintetizzato il senso della sua attività in un motto, che ha scritto e appeso in un cortile della casa.



La bellezza delle sue opere è la stessa delle squame di un pesce, e da cuoco sarà spesso stato al mercato del pesce di Sousse, a Bab El Jedid, o addirittura al mercato all'ingrosso al porto. La stessa bellezza l'avrà osservata sui banchi dei venditori di frutta e verdura. Ma tutti i mercanti dei souk tunisini seguono questa estetica nell'esporre le loro merci. È anche la bellezza di un tessuto su cui si ripete un motivo o una figura, o delle ceramiche dell'arte islamica, in cui si ripetono innumerevoli volte gli elementi geometrici di base.
Taïeb ha saputo aggiungere la bellezza dei materiali: legni, metalli, corde, cuoio e gomma.


venerdì 7 ottobre 2022

I treni di Gabès

 

La stazione di Tunisi si trova in place Barcelona, che è anche la principale stazione della metropolitana della città.


Le ferrovie tunisine si sono sviluppate verso il sud del Paese a partire dal 1899 per il trasporto dei fosfati, ancora oggi una risorsa che viaggia su treni merci.


La linea principale collega Tunisi a Gabès, 415 chilometri più a sud, con fermate nelle altre grandi città, Sousse e Sfax.



Da Sfax parte una linea verso ovest, che termina a Gafsa. Non ci sono più in servizio treni per Tozeur e neanche per Metlaoui, anche se questi ultimi sono ancora indicati nell'orario ufficiale pubblicato sul sito delle ferrovie tunisine e affisso in stazione.

Talvolta anche alcuni treni per Gabès e Gafsa vengono soppressi, per cui è sempre meglio chiedere informazioni nelle biglietterie.

In tutte le stazioni ci sono biglietterie con personale (che parla francese): la Tunisia è per ora ancora un Paese civile che non ha adottato la fregatura del self-service (ovvero far lavorare il cliente e ridurre il personale).

Anche se sul biglietto è stampato il numero di un posto a sedere, sul treno ci si siede dove si trova posto.

Se si acquista un biglietto di andata e ritorno, si ha uno sconto del 15%. Si riceve un biglietto che contiene il numero e l'orario del treno per il viaggio di andata, e la scadenza del viaggio di ritorno (10 giorni); questo biglietto va conservato e, il giorno del viaggio di ritorno, presentato in biglietteria per ricevere la "confirmation", cioè il biglietto che riporta i dati del treno.

Altro segno di civiltà: sui treni tunisini i ferrovieri passano a controllare i biglietti, e fanno rispettare la distinzione tra prima e seconda classe (non esiste più la classe 
Confort, ancora segnalata da alcuni siti e guide, e non sono più in servizio le carrozze ristorante).

Inoltre, solitamente i passeggeri parlano tra loro o al telefono a bassa voce (i tunisini sono persone gentili e ben educate, una boccata d'ossigeno per chi soffoca nella maleducazione prevalente in Italia).

Da Sousse c'è una diramazione verso Monastir e Mahdia, che si chiama Metro du Sahel (il nome può creare confusione: questo Sahel non è la regione dell'Africa a sud del Sahara, ma la zona costiera della Tunisia dal Golfo di Hammamet al Golfo di Gabès).

I treni per Monastir (35 minuti di viaggio) e per Mahdia (1 ora e 45 minuti) non partono dalla stazione principale, ma dalla stazione Bab Jedid, circa 2 chilometri a sud-est, in avenue Mohammed V.


Il biglietto per Monastir costa 1 dinaro (30 cent di euro), per Mahdia 2,500 dinari.
La prima corsa da Sousse parte alle 5,45. L'ultima da Mahdia alle 19.


Sulla linea Tunisi-Gabès i treni possono accumulare ritardi anche consistenti (a me è capitato di arrivare a Gabès con 2 ore di ritardo), per cui bisogna tenerne conto in caso  di appuntamenti o di coincidenze con navi e aerei.


Entrando e uscendo dalle città grandi e medie, i treni attraversano periferie desolate e inquinate da rifiuti, in particolare scarti di lavori di demolizione e costruzione. Fra una città e l'altra, si attraversano vastissimi uliveti. Macchie di fichi d'India. Non si vede altro.


È vietato scattare fotografie una volta che si accede ai binari.

Il treno per Tunisi visto dalla sala d'aspetto della stazione di Gabès







sabato 3 settembre 2022

Pluralità linguistica in Calabria

 

Lungro è uno dei centri principali della comunità arbëreshë, ovvero i discendenti degli albanesi che si stabilirono nella penisola italiana a partire dal XV secolo, per sfuggire all'invasione dell'impero bizantino da parte degli Ottomani. Dall'Abruzzo alla Sicilia, sono almeno centomila le persone che parlano la lingua arbëreshë.

Fra di loro, Anna Stratigò, musicista e cantante, che a Lungro gestisce la Casamuseo del Risorgimento: un edificio risalente al Cinquecento, da allora dimora di una quindicina di generazioni della famiglia Stratigò.

Il nome fa riferimento alla storia di un avo di Anna, il poeta Vincenzo, nato a Lungro nel 1822; antiborbonico e poi mazziniano, nel 1859 organizzò con altri rivoluzionari lungresi una sommossa contro le autorità borboniche, l'anno successivo si unì ai volontari di Garibaldi e partecipò alla battaglia del Volturno. Dopo l'unificazione dell'Italia rimase deluso dall'azione dei governi nazionali e, pur continuando la carriera militare, si dedicò agli studi di economia, politica, storia e geografia, fondò scuole serali e aderì al movimento socialista.

La casa di Anna Stratigò riunisce i suoi cimeli risorgimentali con altri ritratti e documenti di familiari, dall'antenato che nel Settecento insegnò all'Accademia di Cosenza fino alla madre di Anna, che comparve sulla copertina di un numero del mensile «i Grandi Viaggi» del 1956, dedicato alla Calabria.


Il tratto caratteristico dei lungresi, mi spiega Anna, è la socialità, che si esprime in varie forme: qui ha attecchito l'usanza di interrompere nel pomeriggio le attività per riunirsi a bere il mate, forse introdotto dai garibaldini provenienti dall'Argentina; la popolazione arbëreshë si ritrova volentieri per suonare e cantare, in particolare in occasione del carnevale, quando si formano gruppi di suonatori che vanno di casa in casa e a ogni sosta si beve vino e si mangia pane e salame.



A Guardia Piemontese si parla il guardiolo, unico caso di lingua occitana nell'Italia meridionale, perché qui si insediarono, fin dal XIII secolo, gruppi di valdesi perseguitati in Francia e in Piemonte dai sovrani cattolici. La Calabria attraeva i valdesi per la fama di Gioacchino da Fiore e per la tolleranza religiosa, eredità dell'epoca di Federico II di Svevia: nella regione convivevano ebrei, arabi, greci e cattolici. La situazione mutò drammaticamente a metà del Cinquecento, sotto il regno di Filippo II di Spagna, che perseguitò i protestanti aprendo i suoi domini alla fanatica ferocia dell'Inquisizione, guidata da uno dei più sanguinari esseri umani della storia, il cardinale Ghislieri. La notte del 5 giugno 1561 le truppe cattoliche uccisero così tanti valdesi nel borgo di Guardia che il sangue versato nelle vie giunse a oltrepassare la porta principale del paese, oggi chiamata Porta del sangue.

Nell'edificio accanto a essa, si trova il Centro di Cultura “Gian Luigi Pascale”, sede del Museo Valdese, ristrutturato e riaperto nel 2011 con i fondi dell'otto per mille della chiesa valdese, che ne finanzia da allora le attività.

Oltre alla tragica storia dei valdesi di Calabria, il responsabile del Museo Valdese, Fiorenzo Tundis, mi illustra anche la loro eccellenza nell'arte della tessitura: affinché questo patrimonio culturale non si perdesse, Fiorenzo Tundis ha coinvolto l'ultima signora esperta ancora attiva in paese e con lei ha aperto un laboratorio di taglio, cucito e di tessitura, dove si insegna a realizzare nuovi esemplari di abiti tradizionali e a utilizzare varie fibre naturali, fra le quali quelle della ginestra.





Il Museo della lingua greca di Calabria, aperto nel 2016 a Bova, è intitolato al glottologo tedesco Gerhard Rohlfs, colui che negli anni Trenta dimostrò che la lingua grecanica parlata in Calabria aveva origine magno-greca e non era, come sostenuto dai linguisti italiani del tempo, frutto della conquista bizantina in epoca medievale. A partire dal ritrovamento di termini di origine dorica persistenti nella parlata delle zone esplorate, Rohlfs smontò la tesi, tanto cara agli accademici dell'epoca fascista, che i Romani avessero completamente latinizzato l'Italia meridionale. Non si curò degli attacchi dei pedanti glottologi fascisti, a cui rispose che «soltanto chi abbia visitato personalmente a dorso di asino su sentieri impraticabili paesi così remoti come Roghudi, Rocaforte, Bova, Africo, Pentedattilo, potrà comprendere perché precisamente in questa zona la lingua greca abbia potuto resistere tanto tempo».


Rohlfs viaggiò estesamente in Italia, in Grecia e nella regione dei Pirenei; già nel 1914, ventiduenne, attraversò l'Italia dal Piemonte alla Puglia; nel 1921 compì il primo viaggio in Calabria, dove tornò negli anni successivi, fino al 1933, e si spinse anche nei paesi grecanici dell'Abruzzo e della Sicilia. Nel 1940 andò in Corsica; riprese gli studi in Calabria e Sicilia nel 1948, ritornando più volte nelle due regioni, l'ultima nel 1983.

Se la concezione archeologica del proprio lavoro Rohlfs la manifesta fin dal titolo del suo libro principale, Scavi linguistici della Magna Grecia, il suo metodo risulta evidente dalle fotografie in mostra nel museo di Bova, che lo ritraggono seduto a un tavolino, all'esterno di case e bettole, in compagnia di uomini anziani, donne e bambini, intento a riportare la conversazione sul proprio quaderno. “U tedescu” aveva capito che le persone che intervistava avrebbero comunicato più volentieri se coinvolte in un rituale quasi magico, e lui lo inscenava, conciliando nobiltà e affabilità.

La scoperta della popolazione calabrese di lingua greca da parte di studiosi e linguisti, tuttavia, è ancora precedente e risale al 1820, quando in provincia di Reggio Calabria giunse il giovane tedesco Karl Witte. Fu lui, attraverso un articolo che pubblicò l'anno successivo, a far conoscere l'esistenza di questa area ellenofona.

La storia della lingua greca di Calabria, però, non si svolge soltanto all'indietro e nelle sue ultime sale il Museo “Gerhard Rohlfs” dà spazio ai poeti grecanici del Novecento: Bruno Casile, Agostino Siviglia e soprattutto Mastr'Angelo Maesano. Il soprannome di Mastro venne a quest'ultimo dalla professione di muratore; nato nel 1915 e segnato dalle esperienze della guerra e del campo di concentramento, è stato considerato un esempio di saggezza. Sua è Vienimi vicino, la poesia per molti più emblematica della cultura grecanica, i cui primi versi, tradotti in italiano, sono: «Tu ragazza che vieni dalla montagna / e io ragazzo che vengo dalla marina, / ora che sei diventata grande / io voglio sposarti. / Vieni, vienimi vicino, / perché io sono solo. / Il fiume scende dai monti / e scende giù in marina, / anche i pesci sono assetati / e vengono a bere l'acqua dolce».


venerdì 5 agosto 2022

La Curnis Auta in Valle Grana

 

Un lunedì mattina di luglio, tre amici si incamminano dalla chiesa di san Pietro e Paolo di Bernezzo in direzione della Maddalena. I primi duecento metri di dislivello li coprono che sta appena albeggiando. I tre continuano a camminare sulla cresta che divide la valle del Cugino da quella di sant'Anna, fino alla località Le Funze, dove il sentiero confluisce nel percorso della Curnis Auta che parte da Vignolo.

Sono uno dei tre, insieme con Paolo e Pierre. Quest'ultimo, che come me anni fa ha compiuto il pellegrinaggio buddista degli 88 templi nell'isola giapponese di Shikoku, ci ricorda che quel cammino è diviso in quattro parti: la prima è dedicata al risveglio spirituale, la seconda all'addestramento ascetico, nella terza si dovrebbe raggiungere l'illuminazione e nella quarta il nirvana. Sarà così anche sulla Curnis – ci chiediamo – , che è divisa in quattro giornate?

Intanto alla nostra sinistra compare la valle Stura. Oltrepassiamo il Chiot Rosa e alla borgata Chiappera prendiamo a destra verso Poggio Francila. Primo errore: imbocchiamo un sentiero che ci porta troppo a sud. Ma ci riorientiamo e tagliando per i prati raggiungiamo l'Arpiola e poi l'Alpe di Rittana. Siamo a più di 1700 metri di altitudine e quindi abbiamo coperto la maggior parte del dislivello giornaliero, ma ci aspettano i primi saliscendi del percorso. Camminando a sud del Beccas del Mezzodì raggiungiamo il colle dell'Ortiga, poi continuiamo verso nord-ovest verso la meta della prima giornata: il bivacco Rosset. Lasciati alle spalle i boschi, sono cominciati i vasti panorami.

(foto di Paolo Ferrari)

Ciascuna delle quattro sezioni del pellegrinaggio giapponese (dieci-dodici giorni di cammino l'una, perché l'intero percorso richiede circa 45 giorni) si conclude con una tappa più impegnativa delle altre, una specie di esame finale. Sembra essere così anche sulla Curnis, ovviamente in proporzione. Raggiunto il punto più alto della giornata, a 1913 metri, infatti, ci aspetta ancora più di mezz'ora di saliscendi su uno stretto sentiero. Arriviamo al bivacco (1900 m. s.l.m.) al termine di otto ore di camminata. Qui ci entusiasmiamo per la bellezza del luogo, e anche perché, unici ospiti, abbiamo la possibilità di sistemarci nel bivacco – già molto accogliente – trasformandolo nella nostra tana. Ognuno sfoga le proprie passioni: Paolo utilizza una scala per allestire uno stendibiancheria, io metto in ordine le provviste come se fossero sugli scaffali di un negozio. Infine, ci cuciniamo lentamente un minestrone.

Il giorno successivo, martedì, ci svegliamo con la prima luce. Si riparte subito in salita, verso il monte Prat Pian. Ci portiamo sopra i 2000 metri di altitudine (e ci resteremo per due giorni), mentre un animale (un camoscio?) ci osserva dall'alto di una cresta. Poi una discesa, al passo della Magnana e poi ancora una salita al monte Grum. Sarà così tutto il giorno: l'asceta, riflettiamo, deve essere sempre pronto ad affrontare nuove discese e nuove salite, senza recriminare o abbattersi.

(foto di Paolo Ferrari)

La seconda colazione del giorno la facciamo al bivacco Bernardi, presso il laghetto del Bram, in gran parte prosciugato come tutti quelli che incontreremo. Continuiamo al cospetto della cima del monte Bram, che durante la Resistenza diede il nome a una delle più importanti formazioni partigiane della valle Grana, poi protagonista della “pianurizzazione” verso le Langhe nel dicembre del 1944.

Superati il colle del Bram e il monte Borel, affrontamo la salita e la discesa più impegnative della giornata e dell'intero percorso: quelle della Cresta di Mulets. Ma dopo essere scesi al col di Mulets bisogna risalire alla cima Viribianc. Siamo quasi a 2500 metri e un'aquila volteggia meravigliosamente alla nostra altitudine. La discesa al passo Viridio preclude all'ascesa al monte omonimo. Da ore, alla nostra sinistra ammiriamo il panorama del vallone dell'Arma, mentre alla nostra destra c'è un muro di nebbia. Noi camminiamo sullo stretto spazio della cresta, con una parte del corpo al sole e l'altra quasi inghiottita da una nuvola. Anche oggi l'ultima delle otto ore giornaliere di cammino è una prova; quando ci si sente già arrivati c'è ancora da attraversare una pietraia prima di scendere al rifugio Fauniera. Zeus ci vuole bene e aspetta ancora qualche minuto prima di scatenare un acquazzone, che guardiamo dalla finestra della camerata. Anche la cuoca del rifugio ci vuole bene, a giudicare dalla cena che ci prepara.

Mercoledì, ovvero il giorno in cui attendere l'illuminazione. Che arriva subito, appena superato il colle di Esischie, sotto forma di meraviglioso panorama sul vallone di Marmora, con la Rocca la Meja sullo sfondo. E si ripeterà più volte: ammirando la punta Tempesta, l'anfiteatro delle Grange del Tibert, la comba di Narbona vista dalle Basse di Narbona, i prati di Rocca della Cernauda.


(foto di Paolo Ferrari)

Dopo il colle della Margherita, ridiscendiamo sotto i 2000 metri, con una sosta ai 1979 della cima del monte Cauri. Questa zona era il rifugio dei partigiani della val Maira durante i rastrellamenti: dalle borgate intorno a Santa Margherita di Dronero salivano qui per mettersi al sicuro dalle incursioni nazifasciste.

Con una ripida discesa (difficoltà finale del giorno) scendiamo al colle del Gerbido e quindi a Pradleves, la “capitale dei partigiani” durante la Resistenza. A Pradleves avevano sede i comandi di divisione e di brigata dei GL e il commissario politico dei garibaldini, vi affluivano rifornimenti e aviolanci, rimesse di denaro e comunicazioni da Cuneo e Torino; nel novembre 1944 venne scelta come sede del comando della V Zona Cuneo Ovest. I nazifascisti tentarono due volte di occupare Pradleves, alla fine di novembre 1944 e nel febbraio 1945, ma vennero sempre respinti. Qui si radunarono, fra la fine di dicembre e i primi di gennaio 1945, i reparti partigiani che vennero trasferiti nelle Langhe con la “pianurizzazione”.

Per noi fare tappa a Pradleves, dopo le ormai consuete otto ore di camminata, è anche l'occasione per un'ottima cena alla trattoria Leon d'oro.

Il giovedì per prima cosa ci riportiamo ai quasi 1200 metri di altitudine di Barma Granda. La leggenda vuole che qui sia vissuta una malvagia masca, Manho Pertusino, uccisa infine da un sarvanot che la gettò in un precipizio. E se – mi chiedo – la masca non fosse stata malvagia, ma (come tante altre donne protagoniste di vicende analoghe) una persona indipendente, vittima dell'invidia popolare? E il sarvanot un pretendente respinto e violento?

La Curnis continua attraversando bellissimi boschi e valicando una serie di colli (Ollasca, La Peira, della Piatta) in cui si incrociano strade e mulattiere che danno l'idea della rete di vie di comunicazione un tempo esistente tra le borgate della val Grana e quelle della val Maira.


(foto di Pierre Crozat)

Dopo aver superato Biotto e San Rocco, saliamo alla cima Varengo e quindi scendiamo a Montemale. Siamo un po' intontiti dal caldo, ma Pierre scorge comunque la fontana di fronte alla palestra di arrampicata: la combinazione di acqua fresca, ombra e panchine si avvicina di molto al nirvana che aspettavamo. La discesa prosegue nei boschi a monte di Bottonasco, dove incontriamo vari serpenti, gli animali del giorno. Animali sacri per alcune civiltà, tra l'altro, dall'antica Grecia all'Asia contemporanea. A Paniale salutiamo la Curnis e imbocchiamo la strada asfaltata verso sud: l'ultima difficoltà consiste nel raggiungere Bernezzo sotto il sole del primo pomeriggio. La interrompiamo con un gelato a Vallera, che la rende decisamente meno faticosa. La solita ottava ora di cammino ci riporta al punto di partenza, dove festeggiamo la conclusione della camminata con la freschissima acqua di una fontana.





domenica 10 luglio 2022

Treni e trekking in Corsica

 

In Corsica si possono unire le passioni per i viaggi in treno e per le camminate, grazie alle ferrovie che la attraversano, i Camini di ferru di a Corsica. La prima tratta, da Bastia Corte, fu aperta nel 1888. Oggi sono in servizio due linee, la Bastia-Ajaccio e la Ponte Leccia-Calvi.

Un'automotrice AMG 800, in servizio dal 2007, alla stazione di Bastia


Ottima è la guida Corsica nascosta di Albano Marcarini (https://sentieridautore.it/) e Tullio Bagnati, pubblicata da Ediciclo nel 2022, che fornisce tutte le informazioni relative alla ferrovia e propone 24 escursioni a partire dalle sue stazioni.




Il tracciato della ferrovia in direzione di Calvi

La stazione di Calvi


Uno dei tunnel del tratto tra Venaco e Corte

La Cittadella di Corte







I ruderi del Grand Hotel costruito a Vizzavona alla fine dell'Ottocento, frequentato dai turisti inglesi che giungevano con il treno alla ricerca di terme e luoghi pittoreschi

La ferrovia nella foresta di conifere intorno a Vizzavona

L'incrocio tra la ferrovia e il sentiero archeologico



L'abri Southwell al termine del sentiero archeologico

In alternativa all'itinerario 13 della guida Corsica nascosta, da Corte si può raggiungere a piedi Santa Lucia di Mercurio prendendo la strada D39 da Avenue Nicoli: costeggiare la ferrovia e il fiume Tavignano per circa 7 km fino all'incrocio con la D41, dove si svolta a sinistra e si percorre una bella strada fra le gli ulivi e le querce, che sale al paese di Santa Lucia con una pendenza mai faticosa per altri 7 km. 



I tredici archi del Ponte di Centu Chiave (viadotto di l'Algheli, al km 72,2 della linea Bastia-Ajaccio)

Parte dell'itinerario 10 si può unire al 9: partendo dalla stazione di Venaco si raggiunge San Pietro di Venaco. Qui, dalla chiesa omonima si segue la freccia gialla del Parco naturale regionale per Casanova; al monumento ai caduti si tiene la sinistra e poco dopo si prende una scorciatoia sulla destra, fra gli alberi e molto ripida, che scende alla strada T20. La si attraversa e subito dopo sulla sinistra si trova un cartello del Parco per Riventosa. Il sentiero scende nel bosco fino a innestarsi a T su una stradina sterrata, dove si volta a destra e si trova subito la Funtana Fresca. Si prosegue in salita per Riventosa, da dove si segue il Sentiero del Patrimonio, che porta a Poggio e Casanova, per poi ritornare alla Funtana Fresca.

Venaco è una fermata a richiesta: per scendere bisogna premere il pulsante che si trova a fianco delle porte della carrozza, per salire alzare un braccio all'arrivo del treno in stazione

Venaco

La Funtana Fresca

Il treno delle 12,46 alla stazione di Poggio-Riventosa

Gli orari dei treni della Corsica si possono consultare sul sito https://cf-corse.corsica/horaires/, ma nelle stazioni principali si trova in omaggio un orario cartaceo.