L'associazione Dèi
Camminanti di Vicopisano organizza da tre anni una festa che raduna
persone che amano i cammini, di ogni genere. Inevitabile che il borgo
toscano sia diventato un luogo in cui è molto alta la probabilità
di incontrare persone di valore. Questo, d'altra parte, è uno dei
motivi principali per cui ci si mette in cammino. Quando, poi,
l'incontro è inaspettato, il piacere è ancora maggiore.
Così è accaduto, una
domenica mattina di aprile, all'amico Ferruccio e a me: annullato
all'ultimo momento il previsto incontro con uno scrittore, decidiamo
di visitare il centro storico di Vicopisano; quando stiamo per
partecipare ad una visita guidata al palazzo del Pretorio, ci viene
suggerito di impiegare i minuti di attesa della guida dando
un'occhiata ad una piccola mostra ospitata in due stanze al
pianterreno del palazzo. Si tratta di macchine di scena per il
teatro, ci dicono.
L'uomo che ci accoglie
è Luciano Minestrella, che è l'autore delle macchine e dei modelli
esposti e l'animatore della Mirabilis Teatro societas di Magliano Sabina, in provincia di Rieti. Non è quindi un
abitante di Vicopisano, ma si capisce subito perché sia qui: il
borgo in cui ci troviamo venne fortificato per conto di Firenze da
Filippo Brunelleschi e la torre che si trova a pochi metri di
distanza porta il suo nome; i primi modelli che Luciano ci illustra
sono tratti da progetti di Brunelleschi, da lui rintracciati nelle
opere di Vasari. Dopo gli studi universitari in Filosofia, infatti,
Luciano ha compiuto un lavoro di ricerca e studio del Rinascimento
italiano, e delle botteghe artigianali fiorentine nel Quattrocento,
che lo ha condotto ad interessarsi al teatro scenografico. Nelle sue
opere teatrali – ci spiega - “la scenografia diviene una
presenza significativa, non è semplicemente l'ambiente entro il
quale il racconto si muove, ma una simbiosi con il racconto stesso e
in alcuni casi un divenire il racconto stesso”. E aggiunge:
“Iniziai a progettare e costruire grandi macchine sceniche
affidando ad esse il racconto di storie antiche e della vita del
tempo presente”.
Le forme
brunelleschiane su cui lavorò inizialmente (per prima, com'è ovvio,
la cupola e, quindi, la sfera e la semisfera) vennero rielaborate nel
2000 per uno spettacolo dedicato alla Natività. Buio in sala. Gli
spettatori siedono intorno al palcoscenico posto al centro del
teatro, sul quale c'è una sfera di legno, composta da due semisfere
sovrapposte. Il loro punto di contatto è all'altezza degli occhi
degli spettatori: la prima luce che li colpisce proviene dall'interno
della sfera all'inizio dello spettacolo, quando la semisfera
superiore viene lentamente sollevata. Poi si accende una seconda
luce, proveniente dall'alto, e così la semisfera che si solleva
proietta un'ombra via via più ampia che arriva a comprendere sotto
di sé tutti gli spettatori.
Cominciamo a capire che
le macchine non sono quinte o fondali, ma sono gli elementi
principali dell'opera teatrale, quelli a cui è affidato il compito
di trasmettere allo spettatore una conoscenza. O meglio, di
risvegliare una conoscenza, perché la spiegazione di Luciano assume
toni platonici: conoscere è ricordare ciò che è in noi innato.
Come certi archetipi, sottolinea: la sfera o l'uovo che si aprono e
la luce che squarcia per la prima volta il buio sono da sempre i
simboli dell'origine nelle culture indoeuropee. “Le macchine
sceniche rappresentano la pulsione vitale della storia da narrare,
sono il corpo che si prende lo spazio dove esprimersi in un movimento
costante. E il suo movimento non è la ripetizione meccanica di un
gesto, ma il ritmo vitale che spoglia della materia fredda
quell'oggetto e lo eleva a soggetto narrante”.
Innate, secondo
Luciano, sono anche le capacità manuali; quando un individuo che ne
è dotato ha la fortuna di nascere in un luogo abitato da persone che
si dedicano da generazioni alle corrispondenti attività
professionali, ecco che le potenzialità si realizzano. Mi trattengo
dall'interrompere l'artista per fargli notare che da platonico sta
diventando aristotelico. La sua fortuna, prosegue, è stata quella di
nascere a Magliano Sabina, dove ha potuto crescere immerso nel
patrimonio tecnico e artistico degli artigiani del paese. Ha imparato
a lavorare il legno, con il quale costruisce le sue macchine, e ha
capito che l'ideatore di un congegno non può delegare ad altri la
sua costruzione perché, in quel caso, non potrebbe infondergli ciò
che, attraverso la macchina, la propria anima vuole comunicare ad
altri. La macchina sarebbe inerte, nessuno stimolo vitale
raggiungerebbe lo spettatore e l'anamnesi non avverrebbe. La
macchina, ridotta a pura materia, susciterebbe un piacere limitato ai
sensi. Estetismo invece di filosofia. “Il teatro, invece,
dev'essere fatto con le stesse mani dei suoi operatori, un teatro
dove la materia diventa azione”.
Queste considerazioni
piacerebbero a Giordano Bruno, che nel suo De la causa, principio
e uno elabora il concetto di Vita-materia. Bruno nega che la
materia sia “potenza pura, nuda, senza atto, senza virtù e
perfezione”. Essa, invece, contiene “l'avvio di tutte le
forme, sicché da esso tutte le produce e le emette”. La
materia è, dunque, principio infinito di vita infinita e la morte
non è che mutazione delle sue accidentali composizioni. La struttura
fondamentale dell'essere, ad ogni livello, è la vicissitudine, cioè
la continua trasmutazione, senza la quale la vita si arresterebbe.
Dal concetto di Vita-materia consegue l’omogeneità di tutti gli
esseri, poiché non vi è differenza per quanto riguarda la materia
che li costituisce. Che cosa, dunque differenzia l’uomo dagli
animali? Esclusa la materia, non rimane che la forma, cioè la
struttura corporea. Bruno individua, perciò, nella mano la
peculiarità che caratterizza l'uomo e la sua civiltà. L'uso
congiunto di intelletto e mano conduce alla virtù attraverso il
lavoro, le invenzioni, la curiosità, la fatica.
A Bruno, sostenitore
dell'infinità dei mondi, sarebbe forse piaciuta anche
Contaminazioni, un'opera di Luciano Minestrella ispirata ai
versi di Alfred Tennyson:
Venite amici,
che non è mai troppo
tardi
per scoprire un nuovo
mondo.
Io vi propongo di
andare più in là dell'orizzonte.
“Le linee che
descrivono lo scafo di una nave fuoriescono da uno strato di mare
composto di scaglie di solfato di rame, l'albero maestro è piegato,
la sua cima poggia ai piedi della polena, le sue funi diventano
strumenti di traino del ponte dove un grande timone, a forma di
calotta di un globo, delinea le rotte da seguire per raggiungere la
terra designata”.
Ferruccio ed io abbiamo
ormai rinunciato alla visita guidata del palazzo e passiamo nella
seconda stanza, dove Luciano ci mostra una delle sue macchine a
grandezza naturale: un Ippogrifo, bicefalo e senza zampe, utilizzato
per uno spettacolo ispirato all'Orlando furioso. Teste e ali
sono montate su un carro, le cui due ruote sono collegate con una
cinghia di trebbiatrice ad un ingranaggio; questo fa muovere avanti e
indietro, alternate, le due teste, una con la bocca più aperta e una
più chiusa, in modo da creare, come in un cartone animato, l'effetto
del cavallo ansimante per la corsa.
“I confini tra
sogno e realtà sono così labili in Ariosto... Le difficoltà di chi
usa materia, che è qualcosa che ha un suo peso che può facilmente
generare pesantezza, che ha un suo volume che ancor più facilmente
può divenire ingombrante, nell'esprimere il volo nel territorio
della fantasia è tanta. Noi ci abbiamo provato e in questo volo
pindarico abbiamo trasportato il nostro bagaglio culturale che
affonda le sue radici in una cultura agreste e di lavoro manuale.
L'Ippogrifo è nato come esigenza di dare una immagine tangibile al
concetto di fantasia, doveva essere quell'elemento di presenza
costante nello spettacolo, elemento generatore delle varie fasi del
racconto teatrale. L'Ariosto era il riferimento letterario. Copiare
fedelmente l'esposizione ariostesca era come riesumare una salma,
qualcosa che era ormai lontano, un sogno che aveva intrapreso il
lungo cammino verso l'infinito, da dove non si fa più ritorno. E
volevamo allora dare a questo sogno una vita nuova per percorrere le
vie tracciate dal predecessore. Ne sono passati di secoli, di
scoperte nuove si è arricchito l'uomo... ed è forse un caso allora
che il nostro Ippogrifo ha come elemento del suo esistere parte del
carro di Elia con cui Astolfo salì sulla luna? Se dovessimo
esprimere i sentimenti che genera in noi, artefici di questa macchina
scenica, l'Ippogrifo, diremmo solo che su questo carro percorriamo
ogni giorno quel tratto di vita che dà colore e calore alla nostra
umile esistenza”.
Nel suo lavoro, Luciano
toglie la maggior quantità possibile di materia, a partire da quella
ornamentale. Lo spettatore non deve essere distratto dal
compiacimento del senso della vista, ma essere messo in condizione di
cogliere l'essenziale attraverso il movimento di quella porzione di
materia che costituisce la macchina. Il legno è povero, leggero.
Nell'Ippogrifo ci sono le bocche, perché per galoppare bisogna
respirare. Ci sono le ali, perché per andare a vivere nei nostri
sogni ci vuole un sostegno. C'è la cinghia della trebbiatrice,
perché per volare ci vogliono radici forti. Il minimo di materia,
quindi, e il massimo di forma, di essenza. Nel metodo di Luciano
risuona la stessa tensione verso la perfezione che anima la filosofia
aristotelica: tutto ciò che esiste si trasforma, e lo fa per
raggiungere la propria forma, l'essenza; la forma pura, cioè la
perfezione, il punto di arrivo finale di tutte le trasformazioni
della materia, non può esistere nel mondo reale perché tutti gli
esseri sono composti di materia e forma indissolubilmente legate; la
perfezione, tuttavia, è ciò verso cui tutto ciò che si trasforma
tende, è ciò che innesca e muove il divenire attirando verso di sé
gli esseri; come la persona amata, la quale, pur immobile o
addirittura ideale, attrae l'amante senza dover fare nulla. Nemmeno
esistere nella realtà.
Luciano notevole! Speriamo di rincontrarlo
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