Un divagalibro è uno di
quei libri che innescano una divagazione sul testo e sul suo autore,
e che, allo stesso tempo, fanno venire voglia di vagabondare verso
altri libri, esplorarli e utilizzarli come nuovi divagalibri. Va da
sé che la divagazione non ha fine e che, molto probabilmente, ad un
certo punto ci si ritroverà a organizzare un viaggio.
Il libro di partenza per
questa divagazione è In Patagonia
di Bruce Chatwin. Sappiamo fin dal titolo dove ci porterà lo
scrittore, e allora la prima curiosità riguarda la scelta
della meta, come succede quando
un amico ci annuncia la destinazione del suo prossimo viaggio e noi
gli chiediamo perché ci voglia andare. Nel libro non c'è
un'introduzione che lo spieghi, né ci aiutano le prime righe:
Nella stanza da pranzo
della nonna c'era un armadietto chiuso da uno sportello a vetri, e
dentro l'armadietto un pezzo di pelle. Il pezzo era piccolo, ma
spesso e coriaceo, con ciuffi di ispidi peli rossicci. Uno spillo
arrugginito lo fissava a un cartoncino. Sul cartoncino c'era scritto
qualcosa con inchiostro nero sbiadito, ma io ero troppo piccolo,
allora, per leggere.
«Cos'è
questo?».
«Un
pezzo di brontosauro».
Per interrogare l'autore,
allora, proseguiamo la lettura:
Il brontosauro, […]
me lo figuravo irsuto, con movimenti pesanti e rumorosi, artigli,
zanne e una maligna luce verde negli occhi. A volte irrompeva
rovinosamente attraverso il muro della mia camera, svegliandomi di
soprassalto.
Questo particolare
brontosauro era vissuto in Patagonia, regione del Sud America
all'estremo limite del mondo. Migliaia di anni prima era caduto in un
ghiacciaio, era disceso lungo il fianco di una montagna in una
prigione di ghiaccio azzurro ed era arrivato in fondo in perfette
condizioni. Qui lo trovò Charley Milward il Marinaio, cugino della
nonna.
Charley Milward era
capitano di un mercantile colato a picco all'entrata dello Stretto di
Magellano. Scampato al naufragio si stabilì nelle vicinanze, a Punta
Arenas, dove divenne direttore di un cantiere di riparazioni navali.
Charley Milward me lo immaginavo come un dio fra gli uomini – alto,
taciturno e forte, con neri favoriti e fieri occhi azzurri. Portava
il berretto da marinaio inclinato su un lato e l'orlo degli stivali
piegato all'ingiù.
Appena vide il
brontosauro spuntare dal ghiaccio capì subito cosa bisognava fare:
lo tagliò a pezzi, salò i pezzi e li mise in barili che spedì via
mare al Natural History Museum di Londra. Nella mia immaginazione
vedevo sangue e ghiaccio, carne e sale, squadre di indios al lavoro e
file di barili lungo la spiaggia: un lavoro gigantesco e del tutto
inutile. Infatti, durante il viaggio attraverso i tropici il
brontosauro si decompose e a Londra arrivò soltanto un ammasso di
roba putrefatta. Ecco perché al museo si possono vedere le ossa del
brontosauro, ma non la pelle.
Per fortuna, però, il
cugino Charley aveva mandato quel pezzetto di pelle alla nonna.
Ecco stabilito il
collegamento fra Chatwin e la Patagonia, collegamento che risale
all'infanzia. Da notare che nel brano ricorrono tre descrizioni
tratte dall'immaginazione: del brontosauro, del cugino Charley e
dell'operazione di spedizione del brontosauro. Segue la descrizione
della nonna e, quindi, giunge il momento in cui l'immaginazione si
scontra con la realtà:
Mai in vita mia ho
tanto desiderato una cosa quanto quel pezzo di pelle. La nonna diceva
che un giorno, forse, l'avrei avuto. E quando morì io dissi: «Ora
lo posso avere, quel pezzo di brontosauro». Ma la mamma disse: «Oh,
quella roba! Ho paura che l'abbiamo buttata via».
A
scuola risero della storia del brontosauro. Il professore di scienze
disse che mi ero confuso con il mammut siberiano. […]
Ci
vollero parecchi anni prima che la verità saltasse fuori. L'animale
di Charley Milward non era un brontosauro, ma un milodonte o bradipo
gigante. Charley non aveva mai trovato un esemplare intero e neppure
un intero scheletro, ma soltanto un po' di pelle e qualche osso,
conservati dal freddo, dal secco e dal sale, in una caverna sul Last
Hope Sound, nella Patagonia cilena. Questa versione della storia era
meno romantica, ma aveva il pregio di essere vera.
La
facoltà immaginativa di Chatwin, comunque, non soccombe nel
contrasto con la verità.
Il
mio interesse per la Patagonia sopravvisse alla perdita della pelle,
perché la guerra fredda fece nascere in me la passione per la
geografia. […] Fu istituito un comitato di emigrazione e vennero
fatti dei piani per andare a stabilirci in qualche remoto angolo
della terra. Studiammo attentamente gli atlanti, individuando la
direzione dei venti predominanti e i luoghi di probabile caduta di
piogge radioattive. La guerra sarebbe scoppiata nell'emisfero nord,
perciò la nostra attenzione si rivolse al Sud. Scartate le isole del
Pacifico, perché le isole sono trappole, scartate l'Australia e la
Nuova Zelanda, come posto più sicuro della Terra venne scelta la
Patagonia.
Immaginavo
una bassa casa di legno, col tetto di assicelle, incatramata per
resistere agli uragani, con dentro ciocchi fiammeggianti e, allineati
sulle pareti, i migliori libri: un posto dove vivere mentre il resto
del mondo saltava in aria.
Poi
Stalin morì e noi cantammo nella cappella inni di gloria a Dio, ma
io continuai a tenere in riserva la Patagonia.
Un
luogo geografico è diventato simbolo del luogo ideale in cui
andare a vivere per sfuggire al mondo reale. Quando si è bambini si
viaggia ogni giorno nel regno dell'immaginazione, da adulti non si fa più, ma si
può organizzare un viaggio reale nel luogo simbolico. Il secondo
capitolo del libro si apre, così, con lo scrittore a Buenos Aires.
Tuttavia, non credo che ritrovarsi fisicamente nei luoghi immaginati
da bambino fosse l'unica motivazione che spinse lo scrittore a
partire. Non voleva, penso, soltanto spostarsi in un'altra parte del
mondo per poter dire: «Ho realizzato un vecchio sogno». La mia
ipotesi è che per Chatwin viaggiare sia parte di un'operazione con
cui crea un nuovo mondo, mescolando luoghi reali e luoghi immaginati,
persone in carne e ossa e figure leggendarie. Questo processo di
fusione di realtà e immaginazione, che è il viaggio, si basa su due
operazioni fondamentali: lo spostamento (nello spazio, nel tempo e
nella fantasia) e la raccolta (di oggetti, di appunti, di storie).
Poi, interviene la scrittura, attraverso cui il nuovo mondo che
Chatwin ha creato assume una forma, ovvero il libro in cui il viaggio
viene raccontato. Un nuovo mondo, insomma, che viene abitato
dall'autore - quando viaggia e quando scrive - e, poi, dai lettori.
Per tutti, un posto
dove vivere mentre il resto del mondo salta in aria.
Nel
1985, otto anni dopo aver pubblicato In
Patagonia,
Chatwin scrisse, insieme con Paul Theroux, Ritorno
in Patagonia.
Leggendolo, ci ritroviamo in un luogo già noto, la questione del
pezzo di brontosauro della nonna, ma questa volta scopriamo qualche
nuovo elemento a sostegno della tesi che ho sopra esposto:
Mai
in vita mia ho desiderato tanto una cosa quanto quel pezzo di pelle.
Ma alla morte della nonna finì buttato via, e io giurai che un
giorno sarei andato a cercarne un altro per rimpiazzarlo. Questa
spuria avventura terminò un tempestoso pomeriggio del 1976, quando
sedetti in fondo alla caverna, dopo aver trovato qualche ciuffo di
pelo e una massa di sterco di milodonte che sembrava quasi defecato
da un cavallo una settimana prima (tanto da suscitare le proteste
della mia donna delle pulizie che l'altro giorno l'ha buttato via).
Al momento della scoperta udii un coro di voci che cantavano «Ave
Maria!» e pensai di essere proprio impazzito. Era un pullman di
suore di un convento di Punta Arenas uscite per la consueta gita del
sabato pomeriggio. Le avevo già viste la settimana prima, in
occasione, questa volta, della visita alla colonia di pinguini di
Cabo Virgenes.
Il
mio pezzo di sterco non era esattamente il Vello d'oro, ma mi suggerì
la forma di un libro di viaggio, poiché il genere più antico di
racconto di viaggio è quello in cui il narratore lascia la sua casa
per andare in un paese lontano alla ricerca di un animale
leggendario.
In
queste righe Chatwin, oltre a offrire notevoli esempi di humour,
di autoironia e di understatement
britannici, ci fa capire qualcosa di una delle tecniche di scrittura
che utilizza spesso: l'accostamento, effettuato apparentemente con
modestia, ai classici della letteratura, quasi a rivelare che la sua
ambizione sia l'ingresso nel novero degli autori di quel genere di
opere. Anche questo, in fondo, è il progetto di un viaggio, che si
dovrebbe concludere con l'arrivo in un altro mondo, ideale e reale
allo stesso tempo. Gli accostamenti, però, sono spesso distanziati
nel testo; per esempio, lo schema “spedizione fallimentare-spunto
per un capolavoro” che Chatwin vorrebbe ricalcare era stato fissato
nel capoverso precedente:
Alcuni
zoologi erano convinti che il milodonte non fosse estinto e il «Daily
Express» finanziò una spedizione di ricerca. L'impresa fu un
fiasco, naturalmente, ma lasciò un segno nella letteratura, perché
pare abbia fornito materiale per Il
mondo perduto di
Conan Doyle.
Il
viaggiatore-scrittore cammina e scrive, e dà così inizio ad un
mondo che prima non esisteva e in cui, oltre all'autore, anche noi,
leggendo, possiamo entrare. Questo processo è analogo a quello che
caratterizza la cultura degli aborigeni australiani, che Chatwin
racconta (al termine di un viaggio, ovviamente) in
Le Vie dei Canti.
Secondo la mitologia degli aborigeni, infatti, i loro progenitori
diedero inizio al mondo camminando, per determinarne l'estensione e
creare così lo spazio, e cantando, perché con la parola si
identificano gli esseri, si dà loro un nome e quindi la vita, dal
momento che solo così ciascun individuo è una certa cosa.
Cosa
fa Chatwin mentre viaggia? Più che altro, incontra persone,
individui di cui raccoglie il nome e la storia. I suoi libri, perciò,
contengono soprattutto le descrizioni degli incontri con queste
persone e il racconto delle loro storie.
Incontri e avvenimenti, poi,
richiamano alla memoria dello scrittore altri avvenimenti e altri
incontri del passato.Questo
collegamento che avviene nella mente dello scrittore è descritto
esplicitamente al termine del capitolo 21 de Le
Vie dei Canti, dove un
uomo dalla «gestualità animalesca» porta al ricordo dell'incontro
con l'etologo Konrad Lorenz.
In
altri casi, può trattarsi di persone incontrate attraverso libri o
racconti di altri, persone realmente esistite o personaggi
leggendari. Chatwin insegue questi personaggi, impostando il proprio
itinerario in modo da ricalcare le loro vite; ripercorre, così,
durante il proprio viaggio i loro spostamenti e le loro storie. Tutti
questi incontri confluiscono nel libro che Chatwin scrive e in cui
tutti insieme, compresi noi lettori, ci ritroviamo alla fine a
vivere. Agli spostamenti del suo corpo e della sua immaginazione si
sono sommati quelli della memoria (sua e altrui), della storia e
della leggenda. Ne è risultata una miscela in cui gli ingredienti
non si distinguono più. Questo, secondo me, è il viaggio per
Chatwin.
Il presente testo è stato presentato il 22 marzo 2017 al corso di Geoletteratura organizzato dall'Associazione Italiana Insegnanti di Geografia, presso il Liceo Avogadro di Torino.
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