mercoledì 22 marzo 2017

Il Divagalibro - parte prima




Un divagalibro è uno di quei libri che innescano una divagazione sul testo e sul suo autore, e che, allo stesso tempo, fanno venire voglia di vagabondare verso altri libri, esplorarli e utilizzarli come nuovi divagalibri. Va da sé che la divagazione non ha fine e che, molto probabilmente, ad un certo punto ci si ritroverà a organizzare un viaggio.


 Il libro di partenza per questa divagazione è In Patagonia di Bruce Chatwin. Sappiamo fin dal titolo dove ci porterà lo scrittore, e allora la prima curiosità riguarda la scelta della meta, come succede quando un amico ci annuncia la destinazione del suo prossimo viaggio e noi gli chiediamo perché ci voglia andare. Nel libro non c'è un'introduzione che lo spieghi, né ci aiutano le prime righe:




Nella stanza da pranzo della nonna c'era un armadietto chiuso da uno sportello a vetri, e dentro l'armadietto un pezzo di pelle. Il pezzo era piccolo, ma spesso e coriaceo, con ciuffi di ispidi peli rossicci. Uno spillo arrugginito lo fissava a un cartoncino. Sul cartoncino c'era scritto qualcosa con inchiostro nero sbiadito, ma io ero troppo piccolo, allora, per leggere.

«Cos'è questo?».

«Un pezzo di brontosauro».



Per interrogare l'autore, allora, proseguiamo la lettura:



Il brontosauro, […] me lo figuravo irsuto, con movimenti pesanti e rumorosi, artigli, zanne e una maligna luce verde negli occhi. A volte irrompeva rovinosamente attraverso il muro della mia camera, svegliandomi di soprassalto.

Questo particolare brontosauro era vissuto in Patagonia, regione del Sud America all'estremo limite del mondo. Migliaia di anni prima era caduto in un ghiacciaio, era disceso lungo il fianco di una montagna in una prigione di ghiaccio azzurro ed era arrivato in fondo in perfette condizioni. Qui lo trovò Charley Milward il Marinaio, cugino della nonna.

Charley Milward era capitano di un mercantile colato a picco all'entrata dello Stretto di Magellano. Scampato al naufragio si stabilì nelle vicinanze, a Punta Arenas, dove divenne direttore di un cantiere di riparazioni navali. Charley Milward me lo immaginavo come un dio fra gli uomini – alto, taciturno e forte, con neri favoriti e fieri occhi azzurri. Portava il berretto da marinaio inclinato su un lato e l'orlo degli stivali piegato all'ingiù.

Appena vide il brontosauro spuntare dal ghiaccio capì subito cosa bisognava fare: lo tagliò a pezzi, salò i pezzi e li mise in barili che spedì via mare al Natural History Museum di Londra. Nella mia immaginazione vedevo sangue e ghiaccio, carne e sale, squadre di indios al lavoro e file di barili lungo la spiaggia: un lavoro gigantesco e del tutto inutile. Infatti, durante il viaggio attraverso i tropici il brontosauro si decompose e a Londra arrivò soltanto un ammasso di roba putrefatta. Ecco perché al museo si possono vedere le ossa del brontosauro, ma non la pelle.

Per fortuna, però, il cugino Charley aveva mandato quel pezzetto di pelle alla nonna.



Ecco stabilito il collegamento fra Chatwin e la Patagonia, collegamento che risale all'infanzia. Da notare che nel brano ricorrono tre descrizioni tratte dall'immaginazione: del brontosauro, del cugino Charley e dell'operazione di spedizione del brontosauro. Segue la descrizione della nonna e, quindi, giunge il momento in cui l'immaginazione si scontra con la realtà:



Mai in vita mia ho tanto desiderato una cosa quanto quel pezzo di pelle. La nonna diceva che un giorno, forse, l'avrei avuto. E quando morì io dissi: «Ora lo posso avere, quel pezzo di brontosauro». Ma la mamma disse: «Oh, quella roba! Ho paura che l'abbiamo buttata via».

A scuola risero della storia del brontosauro. Il professore di scienze disse che mi ero confuso con il mammut siberiano. […]

Ci vollero parecchi anni prima che la verità saltasse fuori. L'animale di Charley Milward non era un brontosauro, ma un milodonte o bradipo gigante. Charley non aveva mai trovato un esemplare intero e neppure un intero scheletro, ma soltanto un po' di pelle e qualche osso, conservati dal freddo, dal secco e dal sale, in una caverna sul Last Hope Sound, nella Patagonia cilena. Questa versione della storia era meno romantica, ma aveva il pregio di essere vera.



La facoltà immaginativa di Chatwin, comunque, non soccombe nel contrasto con la verità.



Il mio interesse per la Patagonia sopravvisse alla perdita della pelle, perché la guerra fredda fece nascere in me la passione per la geografia. […] Fu istituito un comitato di emigrazione e vennero fatti dei piani per andare a stabilirci in qualche remoto angolo della terra. Studiammo attentamente gli atlanti, individuando la direzione dei venti predominanti e i luoghi di probabile caduta di piogge radioattive. La guerra sarebbe scoppiata nell'emisfero nord, perciò la nostra attenzione si rivolse al Sud. Scartate le isole del Pacifico, perché le isole sono trappole, scartate l'Australia e la Nuova Zelanda, come posto più sicuro della Terra venne scelta la Patagonia.

Immaginavo una bassa casa di legno, col tetto di assicelle, incatramata per resistere agli uragani, con dentro ciocchi fiammeggianti e, allineati sulle pareti, i migliori libri: un posto dove vivere mentre il resto del mondo saltava in aria.

Poi Stalin morì e noi cantammo nella cappella inni di gloria a Dio, ma io continuai a tenere in riserva la Patagonia.



Un luogo geografico è diventato simbolo del luogo ideale in cui andare a vivere per sfuggire al mondo reale. Quando si è bambini si viaggia ogni giorno nel regno dell'immaginazione, da adulti non si fa più, ma si può organizzare un viaggio reale nel luogo simbolico. Il secondo capitolo del libro si apre, così, con lo scrittore a Buenos Aires. Tuttavia, non credo che ritrovarsi fisicamente nei luoghi immaginati da bambino fosse l'unica motivazione che spinse lo scrittore a partire. Non voleva, penso, soltanto spostarsi in un'altra parte del mondo per poter dire: «Ho realizzato un vecchio sogno». La mia ipotesi è che per Chatwin viaggiare sia parte di un'operazione con cui crea un nuovo mondo, mescolando luoghi reali e luoghi immaginati, persone in carne e ossa e figure leggendarie. Questo processo di fusione di realtà e immaginazione, che è il viaggio, si basa su due operazioni fondamentali: lo spostamento (nello spazio, nel tempo e nella fantasia) e la raccolta (di oggetti, di appunti, di storie). Poi, interviene la scrittura, attraverso cui il nuovo mondo che Chatwin ha creato assume una forma, ovvero il libro in cui il viaggio viene raccontato. Un nuovo mondo, insomma, che viene abitato dall'autore - quando viaggia e quando scrive - e, poi, dai lettori. Per tutti, un posto dove vivere mentre il resto del mondo salta in aria.





Nel 1985, otto anni dopo aver pubblicato In Patagonia, Chatwin scrisse, insieme con Paul Theroux, Ritorno in Patagonia. Leggendolo, ci ritroviamo in un luogo già noto, la questione del pezzo di brontosauro della nonna, ma questa volta scopriamo qualche nuovo elemento a sostegno della tesi che ho sopra esposto:



Mai in vita mia ho desiderato tanto una cosa quanto quel pezzo di pelle. Ma alla morte della nonna finì buttato via, e io giurai che un giorno sarei andato a cercarne un altro per rimpiazzarlo. Questa spuria avventura terminò un tempestoso pomeriggio del 1976, quando sedetti in fondo alla caverna, dopo aver trovato qualche ciuffo di pelo e una massa di sterco di milodonte che sembrava quasi defecato da un cavallo una settimana prima (tanto da suscitare le proteste della mia donna delle pulizie che l'altro giorno l'ha buttato via). Al momento della scoperta udii un coro di voci che cantavano «Ave Maria!» e pensai di essere proprio impazzito. Era un pullman di suore di un convento di Punta Arenas uscite per la consueta gita del sabato pomeriggio. Le avevo già viste la settimana prima, in occasione, questa volta, della visita alla colonia di pinguini di Cabo Virgenes.

Il mio pezzo di sterco non era esattamente il Vello d'oro, ma mi suggerì la forma di un libro di viaggio, poiché il genere più antico di racconto di viaggio è quello in cui il narratore lascia la sua casa per andare in un paese lontano alla ricerca di un animale leggendario.



In queste righe Chatwin, oltre a offrire notevoli esempi di humour, di autoironia e di understatement britannici, ci fa capire qualcosa di una delle tecniche di scrittura che utilizza spesso: l'accostamento, effettuato apparentemente con modestia, ai classici della letteratura, quasi a rivelare che la sua ambizione sia l'ingresso nel novero degli autori di quel genere di opere. Anche questo, in fondo, è il progetto di un viaggio, che si dovrebbe concludere con l'arrivo in un altro mondo, ideale e reale allo stesso tempo. Gli accostamenti, però, sono spesso distanziati nel testo; per esempio, lo schema “spedizione fallimentare-spunto per un capolavoro” che Chatwin vorrebbe ricalcare era stato fissato nel capoverso precedente:



Alcuni zoologi erano convinti che il milodonte non fosse estinto e il «Daily Express» finanziò una spedizione di ricerca. L'impresa fu un fiasco, naturalmente, ma lasciò un segno nella letteratura, perché pare abbia fornito materiale per Il mondo perduto di Conan Doyle.



Il viaggiatore-scrittore cammina e scrive, e dà così inizio ad un mondo che prima non esisteva e in cui, oltre all'autore, anche noi, leggendo, possiamo entrare. Questo processo è analogo a quello che caratterizza la cultura degli aborigeni australiani, che Chatwin racconta (al termine di un viaggio, ovviamente) in Le Vie dei Canti. Secondo la mitologia degli aborigeni, infatti, i loro progenitori diedero inizio al mondo camminando, per determinarne l'estensione e creare così lo spazio, e cantando, perché con la parola si identificano gli esseri, si dà loro un nome e quindi la vita, dal momento che solo così ciascun individuo è una certa cosa.

Cosa fa Chatwin mentre viaggia? Più che altro, incontra persone, individui di cui raccoglie il nome e la storia. I suoi libri, perciò, contengono soprattutto le descrizioni degli incontri con queste persone e il racconto delle loro storie. 
Incontri e avvenimenti, poi, richiamano alla memoria dello scrittore altri avvenimenti e altri incontri del passato.Questo collegamento che avviene nella mente dello scrittore è descritto esplicitamente al termine del capitolo 21 de Le Vie dei Canti, dove un uomo dalla «gestualità animalesca» porta al ricordo dell'incontro con l'etologo Konrad Lorenz.

In altri casi, può trattarsi di persone incontrate attraverso libri o racconti di altri, persone realmente esistite o personaggi leggendari. Chatwin insegue questi personaggi, impostando il proprio itinerario in modo da ricalcare le loro vite; ripercorre, così, durante il proprio viaggio i loro spostamenti e le loro storie. Tutti questi incontri confluiscono nel libro che Chatwin scrive e in cui tutti insieme, compresi noi lettori, ci ritroviamo alla fine a vivere. Agli spostamenti del suo corpo e della sua immaginazione si sono sommati quelli della memoria (sua e altrui), della storia e della leggenda. Ne è risultata una miscela in cui gli ingredienti non si distinguono più. Questo, secondo me, è il viaggio per Chatwin.



Il presente testo è stato presentato il 22 marzo 2017 al corso di Geoletteratura organizzato dall'Associazione Italiana Insegnanti di Geografia, presso il Liceo Avogadro di Torino.

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