Aprile
2020. Viaggiare per il mondo è impossibile, e lo sarà per un tempo
non breve. Ci resta il mondo delle parole: scritte, telefonate,
videotrasmesse. In questo mondo ci possiamo muovere, osservarlo,
esplorarlo e discutere di ciò che vediamo.
Nel
linguaggio dei giornalisti e dei politici (non sono stato attento,
non so dire chi abbia iniziato per primo), una delle reazioni alla
pandemia è stata l'adozione di espressioni che fanno riferimento
alla guerra. Immediatamente, ho provato disagio e preoccupazione.
Provo qui a spiegare perché.
A
ottobre dell'anno scorso, è stato pubblicato un mio racconto dal
titolo In guerra non andare. Per chi non l'ha letto, ho
ripreso le parole con cui mio nonno mi insegnava, quando ero un
ragazzino e correvano gli anni Ottanta, a tenermi alla larga da
qualunque propaganda bellicista. Lui aveva vissuto dodici anni della
sua vita, quelli dai venti ai trentadue, in caserma, al fronte o
nella Resistenza. Non era morto, ma ne era rimasto segnato e non
voleva che a me capitasse nulla del genere. Scrivendo questo
racconto, mi sono innanzitutto reso conto dell'inganno di cui mio
nonno e i suoi coetanei furono vittime: le guerre venivano preparate
in segreto e a loro veniva comunicata una minima e distorta parte
della verità. Anche al fronte, ma soprattutto prima, quando il
regime fascista magnificava i propri progetti coloniali e le presunte
meraviglie della vita del combattente.
Grazie
ai sofferti racconti di mio nonno e alle letture che mi hanno
ispirato, con gli anni ho imparato qualcosa dell'atrocità delle
guerre. Ho vissuto in una parte d'Europa e in un tempo non toccati
direttamente da conflitti, perciò ho avuto la fortuna di imparare a
rifiutare la guerra senza averla provata. Negli anni Novanta, poi, le
guerre jugoslave mi hanno sbigottito. Era solo l'inizio, prima di
arrivare alla Siria e allo Yemen, per non parlare degli altri
conflitti di questo nostro secolo, che forse verrà in futuro
ricordato come il Cinquecento, un secolo “di ferro” dopo qualche
decina di anni di speranze umanistiche.
Con il
mio racconto, ho cercato di far conoscere l'avvertimento di mio
nonno, e la sua premessa implicita: bisogna capire cos'è la guerra,
prima di parlarne bene o pensare di andare a combatterla. Ora sento
politici e giornalisti di ogni livello dichiarare, rispetto alla
pandemia, che “siamo in guerra” e ogni descrizione di avvenimenti
è punteggiata di fronti, trincee e prime linee. La prima cosa che mi
colpisce è che a parlare sono persone che, come me, la guerra non
l'hanno combattuta. E si rivolgono a popolazioni, in Italia o in
Francia per esempio, che in stragrande maggioranza – e ripeto, meno
male – non l'hanno vissuta.
Per
inciso, vorrei sapere cosa ne pensano di questo linguaggio gli
italiani sopravvissuti alla ritirata di Russia, ai rastrellamenti
nazifascisti, all'uranio impoverito nei Balcani, agli attentati in
Afghanistan.
Allora
mi chiedo: su cosa si vuole fare leva utilizzando il lessico
militare? Mi auguro che pochissimi siano coloro che lo hanno adottato
per preparare l'opinione pubblica a vere guerre. Penso poi che una
parte di chi lo utilizza lo faccia perché è una moda. Ci saranno
anche quelli che vogliono spaventare gli interlocutori, per
dissuaderli da comportamenti rischiosi (o perché la docilità delle
masse fa sempre comodo).
Restano
gli altri, quelli su cui mi voglio concentrare, quelli che ritengono
che sia utile per ottenere uno sforzo, una “mobilitazione” (nello
Zingarelli che ho davanti agli occhi, «Modo,
atto ed effetto del mobilitare»;
per il verbo “mobilitare” il primo significato è:
«Attuare
i provvedimenti necessari per il passaggio di una o più unità o di
tutte le forze armate, dalla condizione di pace a quella di guerra»)
al fine di bloccare la diffusione della pandemia. Di cosa parliamo
allora quando parliamo di guerra, se non l'abbiamo vissuta? Del
nostro immaginario, che può essersi formato su film, libri,
reportage, lezioni scolastiche o racconti dei nonni. Soggettivo,
quindi. Ma se così tante voci si levano all'unisono a proclamare che
“siamo in guerra” forse è perché contano sul fatto che
nell'immaginario collettivo la guerra sia in fondo qualcosa che “tira
fuori il meglio degli uomini”, che li spinge all'abnegazione.
Questo
linguaggio mi preoccupa, perché implica che la guerra sia ancora
vista come qualcosa di eroico, una modalità superiore di vita. Mi
preoccupa che in un momento tragico si vadano a prendere le parole
nel mondo della guerra, un mondo dove non dovremmo viaggiare mai,
neanche a parole.
Questo
linguaggio mi mette a disagio, perché è falso. Non è la guerra che
spinge alla generosità. Non è il linguaggio o l'immaginario
bellicista che motiva i medici, gli infermieri, i volontari e tutte
le altre splendide persone che in queste settimane danno il meglio di
sé nello sforzo per limitare i danni causati dalla pandemia. Non è
la guerra, è l'amore. È
l'amore che ci muove verso gli altri.
Ci
vogliono degli sforzi, certo, ma, diciamolo, perché siamo
innamorati. Di noi stessi, di altre persone, dell'umanità intera,
della vita, della pace. Ci dobbiamo impegnare oltre i limiti della
normalità, sì, ma come in un corteggiamento. Non oltrepassiamo
forse i nostri limiti quando corteggiamo una persona di cui siamo
follemente innamorati? Se per incontrare una persona che amo sono
disposto a viaggiare per migliaia di chilometri, non potrò allora
rimanere chiuso in casa per amore della vita, mia e altrui?
Questo
vorrei sentire dai presidenti e dai giornalisti (almeno da quelli
europei): siamo innamorati, diamoci da fare.