venerdì 5 maggio 2017

Uomini in cammino, macchine in scena





L'associazione Dèi Camminanti di Vicopisano organizza da tre anni una festa che raduna persone che amano i cammini, di ogni genere. Inevitabile che il borgo toscano sia diventato un luogo in cui è molto alta la probabilità di incontrare persone di valore. Questo, d'altra parte, è uno dei motivi principali per cui ci si mette in cammino. Quando, poi, l'incontro è inaspettato, il piacere è ancora maggiore.

Così è accaduto, una domenica mattina di aprile, all'amico Ferruccio e a me: annullato all'ultimo momento il previsto incontro con uno scrittore, decidiamo di visitare il centro storico di Vicopisano; quando stiamo per partecipare ad una visita guidata al palazzo del Pretorio, ci viene suggerito di impiegare i minuti di attesa della guida dando un'occhiata ad una piccola mostra ospitata in due stanze al pianterreno del palazzo. Si tratta di macchine di scena per il teatro, ci dicono.

L'uomo che ci accoglie è Luciano Minestrella, che è l'autore delle macchine e dei modelli esposti e l'animatore della Mirabilis Teatro societas di Magliano Sabina, in provincia di Rieti. Non è quindi un abitante di Vicopisano, ma si capisce subito perché sia qui: il borgo in cui ci troviamo venne fortificato per conto di Firenze da Filippo Brunelleschi e la torre che si trova a pochi metri di distanza porta il suo nome; i primi modelli che Luciano ci illustra sono tratti da progetti di Brunelleschi, da lui rintracciati nelle opere di Vasari. Dopo gli studi universitari in Filosofia, infatti, Luciano ha compiuto un lavoro di ricerca e studio del Rinascimento italiano, e delle botteghe artigianali fiorentine nel Quattrocento, che lo ha condotto ad interessarsi al teatro scenografico. Nelle sue opere teatrali – ci spiega - “la scenografia diviene una presenza significativa, non è semplicemente l'ambiente entro il quale il racconto si muove, ma una simbiosi con il racconto stesso e in alcuni casi un divenire il racconto stesso”. E aggiunge: “Iniziai a progettare e costruire grandi macchine sceniche affidando ad esse il racconto di storie antiche e della vita del tempo presente”.

Le forme brunelleschiane su cui lavorò inizialmente (per prima, com'è ovvio, la cupola e, quindi, la sfera e la semisfera) vennero rielaborate nel 2000 per uno spettacolo dedicato alla Natività. Buio in sala. Gli spettatori siedono intorno al palcoscenico posto al centro del teatro, sul quale c'è una sfera di legno, composta da due semisfere sovrapposte. Il loro punto di contatto è all'altezza degli occhi degli spettatori: la prima luce che li colpisce proviene dall'interno della sfera all'inizio dello spettacolo, quando la semisfera superiore viene lentamente sollevata. Poi si accende una seconda luce, proveniente dall'alto, e così la semisfera che si solleva proietta un'ombra via via più ampia che arriva a comprendere sotto di sé tutti gli spettatori.



Cominciamo a capire che le macchine non sono quinte o fondali, ma sono gli elementi principali dell'opera teatrale, quelli a cui è affidato il compito di trasmettere allo spettatore una conoscenza. O meglio, di risvegliare una conoscenza, perché la spiegazione di Luciano assume toni platonici: conoscere è ricordare ciò che è in noi innato. Come certi archetipi, sottolinea: la sfera o l'uovo che si aprono e la luce che squarcia per la prima volta il buio sono da sempre i simboli dell'origine nelle culture indoeuropee. “Le macchine sceniche rappresentano la pulsione vitale della storia da narrare, sono il corpo che si prende lo spazio dove esprimersi in un movimento costante. E il suo movimento non è la ripetizione meccanica di un gesto, ma il ritmo vitale che spoglia della materia fredda quell'oggetto e lo eleva a soggetto narrante”.

Innate, secondo Luciano, sono anche le capacità manuali; quando un individuo che ne è dotato ha la fortuna di nascere in un luogo abitato da persone che si dedicano da generazioni alle corrispondenti attività professionali, ecco che le potenzialità si realizzano. Mi trattengo dall'interrompere l'artista per fargli notare che da platonico sta diventando aristotelico. La sua fortuna, prosegue, è stata quella di nascere a Magliano Sabina, dove ha potuto crescere immerso nel patrimonio tecnico e artistico degli artigiani del paese. Ha imparato a lavorare il legno, con il quale costruisce le sue macchine, e ha capito che l'ideatore di un congegno non può delegare ad altri la sua costruzione perché, in quel caso, non potrebbe infondergli ciò che, attraverso la macchina, la propria anima vuole comunicare ad altri. La macchina sarebbe inerte, nessuno stimolo vitale raggiungerebbe lo spettatore e l'anamnesi non avverrebbe. La macchina, ridotta a pura materia, susciterebbe un piacere limitato ai sensi. Estetismo invece di filosofia. “Il teatro, invece, dev'essere fatto con le stesse mani dei suoi operatori, un teatro dove la materia diventa azione”.



Queste considerazioni piacerebbero a Giordano Bruno, che nel suo De la causa, principio e uno elabora il concetto di Vita-materia. Bruno nega che la materia sia “potenza pura, nuda, senza atto, senza virtù e perfezione”. Essa, invece, contiene “l'avvio di tutte le forme, sicché da esso tutte le produce e le emette”. La materia è, dunque, principio infinito di vita infinita e la morte non è che mutazione delle sue accidentali composizioni. La struttura fondamentale dell'essere, ad ogni livello, è la vicissitudine, cioè la continua trasmutazione, senza la quale la vita si arresterebbe. Dal concetto di Vita-materia consegue l’omogeneità di tutti gli esseri, poiché non vi è differenza per quanto riguarda la materia che li costituisce. Che cosa, dunque differenzia l’uomo dagli animali? Esclusa la materia, non rimane che la forma, cioè la struttura corporea. Bruno individua, perciò, nella mano la peculiarità che caratterizza l'uomo e la sua civiltà. L'uso congiunto di intelletto e mano conduce alla virtù attraverso il lavoro, le invenzioni, la curiosità, la fatica.



A Bruno, sostenitore dell'infinità dei mondi, sarebbe forse piaciuta anche Contaminazioni, un'opera di Luciano Minestrella ispirata ai versi di Alfred Tennyson:



Venite amici,

che non è mai troppo tardi

per scoprire un nuovo mondo.

Io vi propongo di andare più in là dell'orizzonte.



Le linee che descrivono lo scafo di una nave fuoriescono da uno strato di mare composto di scaglie di solfato di rame, l'albero maestro è piegato, la sua cima poggia ai piedi della polena, le sue funi diventano strumenti di traino del ponte dove un grande timone, a forma di calotta di un globo, delinea le rotte da seguire per raggiungere la terra designata”.


Ferruccio ed io abbiamo ormai rinunciato alla visita guidata del palazzo e passiamo nella seconda stanza, dove Luciano ci mostra una delle sue macchine a grandezza naturale: un Ippogrifo, bicefalo e senza zampe, utilizzato per uno spettacolo ispirato all'Orlando furioso. Teste e ali sono montate su un carro, le cui due ruote sono collegate con una cinghia di trebbiatrice ad un ingranaggio; questo fa muovere avanti e indietro, alternate, le due teste, una con la bocca più aperta e una più chiusa, in modo da creare, come in un cartone animato, l'effetto del cavallo ansimante per la corsa.





I confini tra sogno e realtà sono così labili in Ariosto... Le difficoltà di chi usa materia, che è qualcosa che ha un suo peso che può facilmente generare pesantezza, che ha un suo volume che ancor più facilmente può divenire ingombrante, nell'esprimere il volo nel territorio della fantasia è tanta. Noi ci abbiamo provato e in questo volo pindarico abbiamo trasportato il nostro bagaglio culturale che affonda le sue radici in una cultura agreste e di lavoro manuale. L'Ippogrifo è nato come esigenza di dare una immagine tangibile al concetto di fantasia, doveva essere quell'elemento di presenza costante nello spettacolo, elemento generatore delle varie fasi del racconto teatrale. L'Ariosto era il riferimento letterario. Copiare fedelmente l'esposizione ariostesca era come riesumare una salma, qualcosa che era ormai lontano, un sogno che aveva intrapreso il lungo cammino verso l'infinito, da dove non si fa più ritorno. E volevamo allora dare a questo sogno una vita nuova per percorrere le vie tracciate dal predecessore. Ne sono passati di secoli, di scoperte nuove si è arricchito l'uomo... ed è forse un caso allora che il nostro Ippogrifo ha come elemento del suo esistere parte del carro di Elia con cui Astolfo salì sulla luna? Se dovessimo esprimere i sentimenti che genera in noi, artefici di questa macchina scenica, l'Ippogrifo, diremmo solo che su questo carro percorriamo ogni giorno quel tratto di vita che dà colore e calore alla nostra umile esistenza”.



Nel suo lavoro, Luciano toglie la maggior quantità possibile di materia, a partire da quella ornamentale. Lo spettatore non deve essere distratto dal compiacimento del senso della vista, ma essere messo in condizione di cogliere l'essenziale attraverso il movimento di quella porzione di materia che costituisce la macchina. Il legno è povero, leggero. Nell'Ippogrifo ci sono le bocche, perché per galoppare bisogna respirare. Ci sono le ali, perché per andare a vivere nei nostri sogni ci vuole un sostegno. C'è la cinghia della trebbiatrice, perché per volare ci vogliono radici forti. Il minimo di materia, quindi, e il massimo di forma, di essenza. Nel metodo di Luciano risuona la stessa tensione verso la perfezione che anima la filosofia aristotelica: tutto ciò che esiste si trasforma, e lo fa per raggiungere la propria forma, l'essenza; la forma pura, cioè la perfezione, il punto di arrivo finale di tutte le trasformazioni della materia, non può esistere nel mondo reale perché tutti gli esseri sono composti di materia e forma indissolubilmente legate; la perfezione, tuttavia, è ciò verso cui tutto ciò che si trasforma tende, è ciò che innesca e muove il divenire attirando verso di sé gli esseri; come la persona amata, la quale, pur immobile o addirittura ideale, attrae l'amante senza dover fare nulla. Nemmeno esistere nella realtà.