Nel 2017 si è ricordato un duplice anniversario:
novanta anni fa, il 23 agosto del 1927, il calzolaio pugliese Nicola Sacco e il pescivendolo piemontese Bartolomeo Vanzetti, furono ingiustamente messi a morte sulla sedia elettrica per un crimine che non avevano commesso;
quaranta anni fa, nel 1977, Michael Dukakis, all’epoca governatore del Massachusetts, riconobbe ufficialmente l’errore giudiziario e riabilitò la memoria dei due italiani.
Il testo seguente è la traduzione di materiali presentati ad una conferenza sul caso Sacco-Vanzetti tenutasi alla Public Library di Boston nell'ottobre 1979. Li mise a disposizione dello scrivente il professor Marcello Garino, rappresentante negli anni '70 del Comitato Provinciale Sacco e Vanzetti di Cuneo, che nel 1977 aveva accompagnato negli Stati Uniti la sorella di Bartolomeo Vanzetti, Vincenzina, e che partecipò alla conferenza del 1979. Le relazioni vennero pubblicate nel 1982 in Sacco-Vanzetti: Developments and Reconsiderations - 1979. Conference Proceedings, Boston, Trustees of the Public Library of the City of Boston - 1982; la pubblicazione è consultabile gratuitamente sul sito https://archive.org
Alla
maggioranza degli italoamericani sembrava evidente che Sacco e
Vanzetti fossero perseguitati semplicemente perché erano due
immigrati italiani. Per questo motivo il processo fece nascere una
certa unità fra gli immigrati italiani con idee politiche diverse.
All’interno
della comunità, tuttavia, le opinioni e gli interessi differivano e
l’esame delle reazioni al caso dei due anarchici può servire a
chiarirli.
I
cosiddetti prominenti, che rappresentavano il settore più
potente, erano fortemente preoccupati da due aspetti del caso:
l’impatto sul futuro dell’immigrazione dall’Italia e le idee
politiche di Sacco e Vanzetti. Le imminenti restrizioni
all’immigrazione erano percepite come una seria minaccia sia
dai prominenti che dal Governo italiano. La prima
legge in materia, il Quota Act, fu promulgata nel 1921 e la seconda
nel 1924; entrambe ridussero il numero di italiani ammessi negli
Stati Uniti. Ai prominenti era chiaro che le gesta
degli anarchici e i loro effetti sull’opinione pubblica americana
avrebbero potuto giustificare ulteriori restrizioni e si affrettarono
a prendere le distanze. Un esempio di tale atteggiamento è il
telegramma che i Figli d’Italia del Massachusetts inviarono al
Governatore Fuller dopo che questi rifiutò la grazia a Sacco e
Vanzetti:
“Riaffermiamo
la nostra sincera fiducia nell’integrità e imparzialità che avete
dimostrato verso tutti gli abitanti dello Stato, e vi assicuriamo la
nostra amicizia e devozione.”1
L’atteggiamento
verso la questione dell’immigrazione, comunque, non era del tutto
omogeneo all’interno della comunità. Per esempio, Angelo Faggi, un
anarchico espulso durante i “Red raids”, scrisse in un articolo
pubblicato nel 1920 dal settimanale anarchico milanese Lotta
di Classe: “Dobbiamo far sapere ai nostri lavoratori tutte
queste verità, perché non emigrino negli Stati Uniti, dove
troverebbero soltanto delusione, umiliazioni e persecuzioni.”
La
maggior parte delle lettere e dei resoconti dagli Stati Uniti
pubblicati in quegli anni dalla stampa anarchica italiana esprimeva
la stessa amarezza. Gli italiani espulsi o perseguitati che tornavano
in Italia denunciavano immancabilmente l’immagine dell’America
presentata dai giornali e dalle agenzie ufficiali. Non solo non c’era
richiesta di manodopera, accusavano, ma tutto ciò che l’America
offriva erano disoccupazione, desolazione, violenza e povertà.
Ovviamente,
anche le idee politiche di Sacco e Vanzetti divisero la comunità. La
stampa italoamericana legata ai settori più integrati e cooptati
della comunità, infatti, sviluppò un’analisi a dir poco originale
del radicalismo. L’idea era che chi non accettava i valori e lo
stile di vita americani non fosse sano di mente. Il Carroccio, una
rivista italiana pubblicata a New York, pubblicò nel febbraio 1920
un articolo intitolato “Il radicalismo e gli immigrati stranieri”
in cui si poteva leggere: “Gli immigrati stranieri che vogliono
sovvertire le istituzione americane devono essere trattati come
paranoici e megalomani.” Un altro esempio si trova ne La
Gazzetta del Massachusetts del febbraio 1919, che metteva in
guardia i suoi lettori dai “maniaci politici bolscevichi o
dell’IWW.”
I prominenti,
in conclusione, mascherarono la loro decisione di non difendere Sacco
e Vanzetti sotto un’apparente difesa degli immigrati italiani,
proprio mentre le autorità americane utilizzavano lo status di
immigrati dei due imputati per screditare i loro ideali e, più in
generale, il dissenso dei radicali e dei lavoratori.
Barbara
Miller Solomon, della Harvard University, prima di occuparsi del caso
Sacco-Vanzetti, aveva compiuto uno studio sulla vecchia élite del
New England, i “Bramini”, come essi stessi amavano definirsi, o i
“Veri Bostoniani”, come altri li hanno chiamati. In Antenati
e Immigrati ha tracciato lo sviluppo del movimento
restrizionista contro l’immigrazione fra quei Bramini che
sostennero il concetto della superiorità razziale degli
Anglo-Sassoni per giustificare la fine della politica di libera
immigrazione degli Stati Uniti. Ci fu una minoranza di Bramini che
sostenne il più antico ideale Yankee di accettazione degli stranieri
immigrati in quanto potenziali cittadini Americani. Tuttavia, i
Bramini restrizionisti videro le loro richieste accolte nella
legislazione anti-immigrazione del 1921 e del 1924. Le posizioni che
i diversi componenti di questo gruppo sociale tennero nei confronti
del caso Sacco-Vanzetti vanno indagate perchè influirono sul suo
sviluppo e sulla sua successiva interpretazione.
I
Bramini del New England formavano la “nobiltà” locale, basata
sulla discendenza da antiche famiglie Yankee, sebbene alcuni “nuovi
arrivati” erano entrati a farne parte attraverso matrimoni o grazie
al proprio talento. Tutti si consideravano, ed erano percepiti, come
appartenenti ad una casta privilegiata che aveva l’onere di fissare
i modelli di comportamento per l’intera comunità. Essi vivevano a
Boston, in Beacon e Marlborough Street, o nelle cittadine dei
dintorni, e Boston era il centro dei loro interessi economici e
culturali. All’inizio del ventesimo secolo essi erano consapevoli
dei problemi derivanti dall’industrializzazione,
dall’urbanizzazione e dall’immigrazione; ma le aspettative della
società democratica erano cambiate e richiedevano un nuovo approccio
alle questioni sociali. La filantropia non era più sufficiente per
soddisfare la domanda di equità sociale, né per cancellare povertà
e privilegi. Mentre la maggioranza dei Bramini si opponeva ai
sindacati, la componente liberale ne ammetteva la necessità,
arrivando, in alcuni casi, a sostenere alcuni scioperi. I Bramini si
divisero in sostenitori e oppositori del suffragio femminile, facendo
di Boston un punto di riferimento per entrambi gli schieramenti. Fra
i Bostoniani della upper-class dell’epoca, quindi, si trovavano sia
i conservatori sia i radicali; tuttavia, alle elezioni presidenziali
del 1912 pochi di loro furono fra il milione di Americani che votò
per il candidato socialista Eugene Debs. Un numero maggiore appoggiò
l’etica riformista di Woodrow Wilson e di Theodore Roosevelt, ma la
maggior parte di essi rimase legata al Partito Repubblicano,
conservatore, di William Howard Taft.
La
Prima Guerra Mondiale non fece che acuire le tensioni fra i Bramini
di orientamenti diversi: una parte di essi, infatti, si schierò
contro l’entrata in guerra degli Stati Uniti e lavorò perchè si
giungesse alla pace al più presto, e altre divergenze sorsero a
proposito degli obiettori di coscienza, dei cittadini Americani di
origine tedesca e degli altri dissidenti. La fine della guerra non
portò l’armonia e Boston non fu immune all’ondata di xenofobia
che attraversò la nazione. Le tensioni sociali che l’emergenza
bellica aveva fatto rimanere in sospeso esplosero violentemente in
tutti i centri urbani industrializzati. A Boston si ebbero degli
scontri fra i radicali e la polizia in occasione del Primo Maggio. La
paura degli agitatori bolscevichi condusse ai Palmer Red Raids,
“spedizioni”, organizzate dal Ministro della Giustizia Palmer,
che portarono all’espulsione di migliaia di stranieri negli anni
1919 e 1920. La scarsa tolleranza delle diversità serpeggiante fra
le classi colte apparve evidente quando il Wellesley College licenziò
Emily Greene Balch, una docente di economia, per la sua
partecipazione alle proteste dei radicali contro la guerra.
L’appartenenza al gruppo dei Bramini non le fu sufficiente per
salvarsi.
Inoltre,
nel 1919, in seguito al tramonto della prosperità economica di
Boston dovuto alla crisi post-bellica, le aspettative dei lavoratori
locali vennero frustrate dalla disoccupazione e dall’inflazione.
Una serie di scioperi venne indetta dai dipendenti della compagnia
telefonica, delle ferrovie e delle industrie tessili. Nell’autunno
del 1919 la situazione degenerò in seguito all’entrata in sciopero
dei poliziotti, efficienti ma mal retribuiti; la città fu travolta
da un’ondata di violenza finché non intervenne la Guardia
Nazionale. I poliziotti che avevano aderito allo sciopero non furono
più assunti, ma i cittadini non seppero che, in precedenza, il
Commissario di Polizia Curtis aveva deliberatamente ignorato un piano
elaborato dal Sindaco Peters e da una commissione presieduta dal
Bramino liberale Storrow, piano che avrebbe portato ad un compromesso
ed evitato lo sciopero.
Mentre
i conservatori conclusero che i poliziotti erano diventati dei “matti
bolscevichi”, il ristretto gruppo dei Bramini liberali vide in
questo sciopero il segnale della crisi di comunicazione fra le
diverse componenti della comunità. Per porre rimedio a questa
situazione, John Codman, Elizabeth Glendower Evans e Margaret
Shurtleff guidarono la League for Democratic Action, un forum
pubblico e indipendente dove tutte le parti del mondo del lavoro
potevano esporre i propri punti di vista. Le stesse persone, insieme
ad altri Bostoniani, attivarono il Sindacato per le Libertà Civili
del New England e, nel 1920, la loro Chiesa Comunitaria non settaria.
Ben
presto, però, un nuovo e complesso caso attirò l’attenzione di
questi elementi liberali. Il 5 maggio 1920 Nicola Sacco e Bartolomeo
Vanzetti, immigrati italiani, anarchici, uno operaio in un
calzaturificio e l’altro venditore ambulante di pesce, vennero
arrestati a bordo di un tram. I due uomini pensarono di essere
vittime di una delle spedizioni di Palmer contro i “rossi”.
Chiesero aiuto agli amici anarchici e, prontamente, Aldino Felicani
attivò il Comitato di Difesa Sacco-Vanzetti. Un mese più tardi i
due vennero formalmente accusati di omicidio.
Alcuni
Bramini inziarono a seguire il caso e quando, da maggio a luglio del
1921, il processo richiamò una folla di osservatori, fra di essi
spiccò la figura di Elizabeth Glendower Evans. Nei sette anni
successivi ella divenne il tramite fra gli anarchici del Comitato di
Difesa Sacco-Vanzetti e i simpatizzanti liberali di Boston, e aiutò
generosamente il Comitato, sebbene non ne condividesse sempre le
strategie. Uno sguardo alle sue precedenti attività può spiegare la
sua dedizione a questa causa.
Nel
1920 Elizabeth Glendower Evans era ormai un’esperta sostenitrice di
numerose riforme progressiste. Le radici del suo coinvolgimento
risiedevano nell’insolita e informale educazione ricevuta. Nata nel
1856 in una famiglia conservatrice, i Gardiner, frequentò la
congregazione del liberale Phillips Brooks e meditò di diventare una
missionaria prima di conoscere Glendower Evans, suo futuro marito.
Questi era un ricco outsider proveniente dalla Pennsylvania,
considerato un ribelle dalla propria famiglia per aver frequentato lo
Harvard College. Dopo il loro matrimonio, nel 1882, Elizabeth assorbì
le idee del marito in materia di religione e società, idee che in
seguito sostenne come membro del consiglio di amministrazione delle
Scuole Riformate del Massachussets e come innovatrice nella riforma
carceraria. William James e Louis Brandeis, intimi amici del marito,
scomparso quattro anni dopo il matrimonio, divennero i suoi mentori
intellettuali e personali, e i saggi di Ralph Waldo Emerson le sue
letture preferite.
La
guerra ispano-americana del 1898 destò i primi sentimenti di
opposizione di Evans alla politica estera americana. Come William
James, era un’anti-imperialista. Un decennio più tardi si
interessò alle questioni sociali e, spinta da Brandeis, andò in
Inghilterra per studiare il movimento sindacale. Al suo ritorno entrò
in contatto con i circoli che si battevano per il suffragio femminile
e, dopo aver tenuto un comizio su questo argomento ai cancelli di una
fabbrica, comprese l’importanza del suffragio femminile come mezzo
per migliorare le condizioni dei lavoratori. Queste attività le
fecero incontrare Robert LaFollettes, il quale viveva nel Wisconsin e
la mise in contatto con gli attivisti sociali del Midwest.
In
seguito concentrò la sua attenzione sui problemi dei lavoratori e
condusse la crociata che portò, nel Massachussetts, alla legge sul
salario minimo per le donne, la prima degli Stati Uniti. Partecipò
ai picchetti della Lega dei Sindacati delle Donne durante uno
sciopero a Roxbury nel 1910 e fu attiva a Lawrence nel 1912 e nel
1919, anche se possedeva delle azioni nelle aziende interessate dagli
scioperi.
Lo
scoppio della Prima Guerra Mondiale sconvolse il suo ottimismo
riformista, ma presto si unì ad uno straordinario gruppo di donne
americane che parteciparono con Jane Addams alla Conferenza dell’Aja
nel 1915 per decidere, insieme alle leader delle donne europee, cosa
fare per giungere in fretta alla pace. Sebbene Evans ammirasse il
Presidente Woodrow Wilson, si oppose alla leva obbligatoria e
sostenne con grande riluttanza l’entrata in guerra degli
StatiUniti. Dopo la guerra mantenne una relazione personale con
Wilson e nel 1921 gli scrisse per esprimere la sua amarezza alla
notizia che il Presidente aveva negato la grazia a Eugene Debs,
imprigionato per la sua campagna contro la guerra.
Il
caso Sacco-Vanzetti era legato a tutte le questioni di cui Elizabeth
Glendower Evans si era occupata precedentemente: i diritti dei
carcerati, dei lavoratori, degli immigrati, dei radicali, delle donne
e degli obiettori di coscienza. Elizabeth Glendower Evans ebbe un
ruolo cruciale nella sensibilizzazione dei Bostoniani, poichè si
assicurò il sostegno di influenti Bramini e pubblicizzò il processo
con la sua presenza e con i suoi scritti. Nei suoi numerosi articoli
comparsi su La Follettes Magazine, Survey, Unity e
altri periodici, analizzò il caso evidenziando i pregiudizi della
corte.
Almeno
tre generazioni di Bramini furono divise dal caso Sacco-Vanzetti, ed
esso mise alla prova i valori dell’élite del New England,
opponendo chi sosteneva il vecchio ordine e la legalità a chi
cercava di trascendere le limitazioni per impedire un errore
giudiziario.
Evans
coinvolse molte donne, le quali, dopo aver seguito il processo, si
convinsero che questo non era stato equo. Quelle che approfondirono
la conoscenza di Sacco e Vanzetti duranti i sette anni di prigionia
credettero, alla fine, nella loro innocenza. Si trattava di donne che
guidavano organizzazioni femministe, associazioni di beneficenza e
gruppi religiosi, impegnate per i diritti dei lavoratori, per la pace
e per i diritti civili. Molte avevano circa quarant’anni, cioè
venti o venticinque di meno della sessantacinquenne Elizabeth
Glendower Evans e della sua coetanea Alice Stone Blackwell. Blackwell
pubblicava il The Woman’s Journal, sosteneva gli Armeni
residenti a Boston ed era una socialista ben più radicale della
madre, Lucy Stone, abolizionista e pioniera dei diritti delle donne.
Molti
dei Bramini espressero le proprie opinioni sul caso soltanto in
privato. Fra coloro visibilmente attivi ci furono i membri della
League for Democratic Action, come Margaret Shurtleff, madre di sei
figli, campionessa di tennis, ex-studentessa del MIT, e Katharine
Bowdich Codman, presidentessa dell’Associazione Distrettuale delle
Infermiere e moglie di Ernest Codman, un eminente chirurgo che
condivideva le idee della moglie e del cugino, John Codman. Seguirono
il processo anche dei Bostoniani di adozione. Una di essi era
un’amica dei Codman, la dottoressa Alice Hamilton, eminente
tossicologa, pioniere della medicina industriale, unica donna alla
Facoltà di Medicina di Harvard. Avendo lavorato per vent’anni a
stretto contatto con gli Italiani a Hull House, conosceva le idee
anarchiche diffuse fra gli immigrati disillusi dall’America. Vi era
poi Jessica Henderson, un’ex-imprenditrice che era stata
incarcerata per aver manifestato al Boston Common durante una parata
in onore del Presidente Wilson. Era una pacifista e, al tempo del
processo, era membro del femminista Partito della Donna e capo della
Società Anti-Vivisezione. Anche Gertrude Winslow, segretaria della
Chiesa Comunitaria era coinvolta, così come Cerise Carmen Jack,
moglie di un docente di Harvard, e la sua amica Virginia MacMehan,
che si occupavano di diritti civili.
L’inglese
dei due prigionieri migliorò notevolmente, in particolare quello di
Vanzetti, grazie alle lezioni impartite dalla signora Jack e dalla
signora MacMehan. Sacco e Vanzetti ricevettero e lessero libri di
storia, filosofia e letteratura americana. Vanzetti trovò e apprezzò
un elemento anarchico negli scritti di Emerson. Non abbandonarono mai
il loro ideale anarchico, ma avevano un eroe in comune con Evans e
Blackwell: Eugene Debs. Chi conobbe i due prigionieri rimase colpito
dal loro amore per i familiari e gli amici, e nessuno poté credere
che si trattasse di due assassini dal sangue freddo.
Durante
i sette terribili anni di detenzione queste donne aiutarono la
famiglia di Sacco a sopravvivere e cercarono di confortare in qualche
modo i prigionieri, isolati in celle separate per la maggior parte
del tempo, portando loro frutti, fiori e libri. Jessica Henderson
andò in Italia con la figlia nel 1923 per rassicurare le famiglie di
Sacco e Vanzetti circa l’innocenza e l’imminente liberazione dei
loro cari. Nel 1927 Gertrude Winslow compì lo stesso viaggio, ma non
riuscì ad infondere ottimismo negli ansiosi parenti che incontrò.
Nello stesso anno Jessica Henderson, sapendo quanto Vanzetti
desiderasse rivedere la sorella Luigia prima di morire, la portò a
Boston. Qui, senza avvertire nessuno, condusse l’addolorata
signorina Vanzetti dal Cardinale O’Connell, che invitò le due
donne per un tè e pregò con loro. Queste donne furono ingiustamente
criticate per la loro opera. Ricorrendo ai peggiori stereotipi,
vennero descritte come donne “anziane”, “con i capelli
bianchi”, sentimentali, screditando, in questo modo, le loro
opinioni sul controverso caso.
Non
fu difficile per queste donne, che pure non erano esperti avvocati,
riconoscere le strategie impregnate di pregiudizi del giudice Thayer
e del Procuratore Distrettuale Katzmann. Il giudice era consapevole
dell’importanza della presenza delle donne, ed un giorno mandò a
chiamare Lois Rantoul, che rappresentava la Federazione delle Chiese
di Boston. Quando egli le chiese cosa pensasse del processo, Rantoul
rispose di non aver “udito prove sufficienti per convincerla che
gli imputati fossero colpevoli”. Egli si mostrò sorpreso e
infastidito, e le assicurò che sarebbe tornata da lui pensando il
contrario dopo aver ascoltato gli interrogatori e le argomentazioni
dell’accusa. Quando il giudice la convocò una seconda volta, però,
lei sottolineò che la testimonianza del datore di lavoro di Sacco,
chiamato dalla difesa, aveva dimostrato che Sacco godeva presso di
lui di una buona reputazione. Il giudice ignorò l’osservazione,
sostenendo che Kelley, il datore di lavoro, aveva detto in un’altra
occasione che “Sacco era un anarchico e non sapeva che farsene di
lui”. Nel rapporto che scrisse per la sua organizzazione, nonché
in un affidavit redatto nel giugno 1926 e in una
dichiarazione resa al Comitato Consultivo de Governatore, Rantoul
affermò che aveva trovato l’osservazione del giudice “non vera”.
Il
Foro di Boston sapeva che la correttezza del processo era messa in
discussione da più parti, ma i suoi leader si mostrarono
indifferenti od ostili e cercarono di tenersi alla larga dal caso.
L’avvocato William Thompson si rifiutò nel 1921 di assumere la
difesa degli imputati, ma due anni dopo, seppur con riluttanza, entrò
nel caso e ne rimase totalmente assorbito. Il suo atteggiamento verso
il caso e, alla fine, verso Sacco e Vanzetti, mutò radicalmente,
come scrive John Farwell Moors, un Bramino liberale, membro della
Corporazione di Harvard: “Egli era una strana persona da tirare
dentro un tale caso. I due imputati, oltre ad essere anarchici, erano
due fannulloni. Nessuno avrebbe potuto essere meno comprensivo di lui
nei loro confronti. Egli ne parlava con disprezzo quando il caso
divenne importante, e con uguale disprezzo definì “sdolcinatezze”
le loro esternazioni e “sciocchi sentimentali” la loro eterogenea
schiera di sostenitori. Ma una volta entrato nel caso, non si fermò.
Ci teneva troppo alla legalità e nutriva un grande rispetto per le
procedure legali. Sebbene all’inizio non fosse convinto
dell’innocenza di Sacco e Vanzetti, riconobbe che essi non avevano
ricevuto il processo equo a cui avevano diritto. “Era un dovere
dello Stato del Massachussetts”, egli disse, provvedere a tale
processo. Alla fine, poi, Thompson si convinse dell’innocenza dei
due uomini, e, alla vigilia della loro esecuzione, si sedette nella
cella di Vanzetti, e lo ascoltò come si ascolta un profeta o un
santo.” Thompson pagò a caro prezzo la dedizione al caso. Era un
brillante avvocato, laureatosi con lode a Harvard, sposato con una
donna dell’élite di Boston, e, tuttavia, perse i suoi clienti e
venne isolato dai colleghi.
Quando
la Corte Suprema del Massachussetts esaminò l’ultimo appello, un
numero crescente di persone si preoccupò del caso. Felix
Frankfurter, un giovane professore liberale della Facoltà di
Giurisprudenza di Harvard, che fino ad allora aveva evitato di farsi
coinvolgere, scrisse un brillante articolo che apparve sull’Atlantic
Monthly. Egli era da tempo al corrente dei fatti grazie ai
Brandeis, e invitò la signora Evans a tenere una lezione sul caso.
L’articolo di Frankfurter colpì e fece infuriare il Foro di
Boston, e, inoltre, spinse all’azione i cittadini dotati di senso
civico e buona volontà. John Farwell Moors ottenne l’appoggio del
Vescovo William Lawrence, capo della Diocesi Episcopale del
Massachussetts, il quale acconsentì a recarsi, in compagnia di altri
rispettabili cittadini, a chiedere l’intercessione del Governatore
dello Stato. Rispondendo alla protesta di questi cittadini, il
Governatore Fuller ordinò un’inchiesta. Il comitato che nominò
comprendeva il Rettore di Harvard Lowell, il Rettore del MIT Stratton
e Robert Grant, giudice in pensione e letterato, nonché vecchio
amico di Lowell. Benchè non ci fosse un presidente ufficiale, Lowell
fu la figura dominante nel comitato. I Bramini di ogni tendenza
furono soddisfatti per la nomina di Lowell.
Egli
aveva molto in comune con la signora Evans; entrambi si
identificavano con il patrimonio culturale del New England,
sostenevano la libertà di coscienza e si sentivano in dovere, in
quanto membri della classe privilegiata, di servire la comunità.
Come Rettore di Harvard, Lowell si sentiva il leader di questa
comunità. Non era un uomo in cerca di popolarità, ed era ritenuto
un conservatore indipendente ed un difensore dei diritti civili.
Sebbene avesse incoraggiato gli studenti di Harvard a servire come
volontari durante lo sciopero dei poliziotti, aveva ignorato la
richiesta degli ex-alunni di licenziare Harold Laski, un lettore che
aveva sostenuto gli scioperanti. Si era, inoltre, rifiutato di agire
contro il Professore di Giurisprudenza Zachariah Chafee per le sue
interpretazione in senso liberale di alcuni casi collegati ai Red
Raids. Nel momento dello scalpore suscitato dall’articolo di
Frankfurter aveva messo a tacere i Sorveglianti di Harvard che si
erano opposti alla pubblicazione dell’articolo mentre la Corte
Suprema del Massachussetts stava esaminando l’appello per un nuovo
processo. Ad essi Lowell rispose: “Volevate che Frankfurter
aspettasse ad esporre il suo punto di vista dopo l’esecuzione dei
due uomini?”
Nonostante
questi esempi di apertura mentale, però, le posizioni di Lowell su
altre questioni politiche erano ben lontane da quelle dei Bramini
liberali. Nel 1916 si era opposto alla nomina di Brandeis alla Corte
Suprema degli Stati Uniti, sostenendo che Brandeis non godeva della
fiducia del Foro di Boston. Mentre ricopriva la carica di Rettore di
Harvard era stato per anni vice-presidente della Lega per la
Restrizione all’Immigrazione, con i cui fondatori condivideva
l’idea che l’America fosse minacciata dall’influsso di
immigranti dall’Europa sud-orientale appartenenti a “razze
straniere”. Nei primi anni Venti fece turbò profondamente gli
ex-alunni di tendenza liberale proponendo delle restrizioni
all’iscrizione di studenti ebrei e provocò l’indignazione dei
Bramini di tradizione abolizionista decidendo che i pochi studenti di
colore non dovessero vivere con le altre matricole. Lowell non era
una persona facilmente catalogabile; non accettava mai le opinioni
altrui prima di essersi formato la propria. Tuttavia, gli avvocati
della difesa rimasero sorpresi ed increduli di fronte alla mancanza
di imparzialità ed accuratezza con cui Lowell condusse i lavori del
Comitato. Il Comitato di Difesa di Sacco e Vanzetti fu
particolarmente costernato dal fatto che i lavori non fossero aperti
al pubblico e alla stampa; inoltre, solo il rapporto del Comitato,
redatto da Lowell, venne reso pubblico.
Dichiaratamente,
nel rapporto finale - e ancor di più in una precedente versione
preparata da Lowell - il Comitato diede un peso notevole alle prove
circostanziali contro Sacco e Vanzetti. Fu riconosciuto che le prove
contro Vanzetti erano deboli. Durante le audizioni Lowell minimizzò
o screditò gli alibi forniti da testimoni italiani. Più tardi egli
commentò che gli italiani “trovano sempre degli alibi”.
Forse
gli esami balistici compiuti da Goddard a giugno avevano
indebitamente influenzato Lowell, tanto da impedirgli di condurre le
audizioni con obiettività. Lowell, in ogni caso, si era convinto
della colpevolezza di Sacco e Vanzetti, e non mise mai in dubbio il
proprio giudizio. John Farwell Moors, che rimase un buon amico di
Lowell, disse a Felix Frankfurter che “Lawrence Lowell era incapace
di pensare che due italiani potessero aver ragione e la magistratura
Yankee avere torto.”
In
conclusione, il rapporto del Comitato Consultivo appoggiò il
verdetto della corte del giudice Thayer e non vide alcun segno di
pregiudizio nel comportamento del giudice o del procuratore
distrettuale Katzmann. Alcune lettere private spedite a Lowell da
Calvert Magruder, un giovane professore della Facoltà di
Giurisprudenza di Harvard, dimostrarono in modo convincente che il
rapporto aveva eccessivamente semplificato la presentazione del caso,
e che “non aveva afferrato la reale forza delle asserzioni degli
imputati.” La maggior parte dei Bostoniani e degli Americani
accettò senza riserve le conclusioni di Lowell. Per i Bramini, che
avevano creduto nella superiorità della loro leadership morale, il
caso provò in modo tragico l’incapacità dei loro leader di
ammettere i propri pregiudizi, consci o inconsci che fossero. I
Bramini liberali, in particolare quelli della generazione diventata
adulta appena prima della Prima Guerra Mondiale, rimasero sconvolti
dalle conclusioni di Lowell. Alcuni, come Catharine Huntington, nota
regista teatrale, scrissero a Lowell per esprimergli la loro
sensazione di tradimento. Per quanto i rappresentanti della legge
abbiano cercato di spegnere il ricordo di Sacco e Vanzetti, il caso
rimase in vita e continuò a scuotere le coscienze dei Bostoniani. Ne
sono una prova l’appello del 23 agosto 1947, firmato da
intellettuali, scrittori, giornalisti, avvocati, professori
universitari e sindacalisti, ed il proclama del Govenatore del
Massachussetts, Michael Dukakis, emesso nel 1977 affinché “ogni
stigma ed onta venga per sempre cancellata dai nomi di Nicola Sacco e
Bartolomeo Vanzetti, dai nomi delle loro famiglie e dei loro
discendenti.”
Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti 90/40 è il titolo di una campagna di Amnesty International per l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo.
1Il
testo del telegrammma si trova in Anna Maria Martellone, Una
Little Italy nell’Atene d’America,
Napoli, 1973, p. 438.