Qual è la funzione dell'edificio ritratto nella seguente fotografia?
Io l'ho capito solo dopo alcune settimane trascorse in Giappone; anzi, per lungo tempo non mi sono proprio accorto della presenza di costruzioni del genere. Fin dal primo giorno, invece, ho notato innumerevoli gesti di gentilezza, che mi aspettavo e che riconoscevo perché li avevo già visti nella mia cultura di provenienza. Ad essere preciso, li avevo intravisti (più nella letteratura e nell'arte che nella vita quotidiana) e, affascinato, mi ero messo a cercare un luogo dove fossero abituali. Si potrebbe concludere che, in un viaggio, l'oggetto (del desiderio) cercato è stimolato dalla cultura di appartenenza/partenza, l'oggetto trovato è recepito/interpretato con le categorie culturali di cui si dispone.
A proposito del pellegrinaggio nello Shikoku, per esempio, gli henro giapponesi descrivono spesso la propria esperienza in termini di raggiungimento della pace interiore e della purezza morale e spirituale: nei loro discorsi riecheggia il concetto giapponese di pellegrinaggio come viaggio interiore di rinnovamento e purificazione. Nei resoconti di australiani e statunitensi si trovano frequentemente espressioni come amazing, empowering o life-altering: esse riflettono la nozione di viaggio mitico e avventuroso, sfida che conduce alla scoperta di sé stessi, che impronta la letteratura europea (a sua volta ispiratasi all'Epopea di Gilgamesh e all'Odissea).
Il viaggio, dunque, è un'esperienza che non aggiunge nulla al soggetto che la compie? Si tratta soltanto di una chiarificazione di aspetti di sé preesistenti? Se così è, vale la pena di viaggiare?
La mia risposta è che il viaggiatore, se vuole che il suo sforzo sia fecondo di nuove conoscenze, deve essere disponibile al cambiamento. Anzi, deve cercare lo straniamento: esso è certamente un disagio, ma ha un effetto liberatorio perché, mostrando che esistono altri costumi e altre consuetudini, rivela che il suo “paesaggio mentale” non è completo né definitivo. Si apre, perciò, la possibilità di arricchire quel “paesaggio” di nuovi elementi, i quali più che sostituire i precedenti li affiancano. La riconsiderazione critica della cultura di partenza può essere uno degli esiti, ma sarebbe riduttivo vedere in essa l'unico obiettivo. Quello che importa è che individui con un'esperienza più ampia riescono a moltiplicare le occasioni di felicità e danno vita ad una cultura più ricca, in grado di trovare nuove e più efficaci soluzioni ai problemi della società in cui si trovano a vivere.
Vedo tre ostacoli all'arricchimento culturale che può derivare dall'incontro con altre civiltà:
- la scarsa conoscenza della propria cultura; il primo arricchimento, infatti, può venire dalla sua esplorazione: finché non la si conosce, essa stessa è un mondo ignoto; inoltre, come si è dimostrato, maggiore è la padronanza della propria cultura, più numerosi saranno gli aspetti che si coglieranno delle altre e, quindi, le possibilità di confronto;
- la presunzione di essere già perfetti; essa conduce alla ricerca di conferme: si vede solo ciò che si accorda con le convinzioni già possedute, l'autocompiacimento è massimo, il mutamento nullo; l'incontro culturale utile, invece, si riconosce dall'impossibilità di pensare in anticipo il suo risultato;
- la svalutazione della propria cultura in nome della presunta superiorità di altre; questo atteggiamento contiene i due precedenti, ai quali si aggiungono (talvolta tutti insieme) altri elementi: non si comprende che se ci accorgiamo dei difetti del cosiddetto Occidente lo dobbiamo agli anticorpi critici che la cultura occidentale stessa ha elaborato, si preferiscono le contrapposizioni plateali alle trasformazioni reali, l'obiettivo del successo in un certo ambiente sociale prevale sulla curiosità intellettuale; una cultura non è un club di cui si può prendere o disdire la tessera, ma un insieme di convinzioni e comportamenti che si modificano soltanto quando cambiano gli individui che la rappresentano.
Il mancato superamento dei tre ostacoli è, credo, alla base dell'infatuazione dei turisti per il “tipico” e il “tradizionale”, nomi nuovi che sostituiscono il “primitivo” e l'”incontaminato” che andavano di moda alcuni anni fa; questa passione si presenta oggi come un lucido per coscienze e un lubrificante per conversazioni che non richiede grossi sforzi, né economici né intellettuali. Vorrei, tuttavia, richiamare l'attenzione su quattro fenomeni ad essa collegati:
- l'afflusso in determinati luoghi di turisti che si aspettano di trovare precise “merci culturali” (artigianato, danze, cibi, ecc.) spinge gli abitanti di quei luoghi a concentrarsi sull'offerta di tali merci (spesso prodotte altrove); in tal modo, non soltanto è prevenuto il mutamento dei turisti, ma anche quello dei locali: è la museizzazione culturale o, per essere più espliciti, la trasformazione del mondo in uno zoo;
- la prevedibilità dei turisti che cercano l'”autentico” permette la sua produzione su scala industriale; la contraddizione è evidente e non merita approfondimento;
- l'esaltazione di altre culture allo scopo di svilire quella “occidentale” tralascia abitualmente gli aspetti criticabili di quelle culture: accade così che, tutti presi a magnificare armonie con la natura, culti degli antenati o tessuti dagli sgargianti colori, si sorvoli sulla discriminazione delle donne in Guatemala o sulla pena di morte in Giappone; talvolta succede di peggio: ho sentito con le mie orecchie giustificare le mutilazioni genitali femminili in quanto espressione di una cultura diversa che, in quanto tale, va rispettata (in questo caso emerge l'incapacità di pensare contemporaneamente la diversità degli esseri umani e l'universalità dei loro diritti);
- come è implicito nel punto precedente, la selezione degli aspetti idilliaci di altre culture rivela, oltre all'incapacità di pensarle nella loro complessità, il senso di superiorità razziale di chi vorrebbe “tornare indietro” e parte, perciò, dal presupposto di esser più evoluto; sia chiaro: questa dinamica non si verifica soltanto quando un francese visita il Mali, ma anche quando un milanese loda “la vita sana che fanno i montanari” o, in una prospettiva temporale più che spaziale, i “bei tempi di una volta”;
Insomma, come dice Pascal Bruckner nel suo Il singhiozzo dell'uomo bianco (1983), bisogna guardarsi da due illusioni: che non abbiamo nulla da imparare dagli altri, e che abbiamo tutto da imparare da loro. Indubbiamente, questa non è la strada più comoda ma la più faticosa; è la strada sulla quale si rifiutano le identificazioni obbligate con una razza, uno schieramento, un partito, un'ideologia, una lingua, per scegliere di costruire amicizie e legami che superano le distanze spirituali e chilometriche perché sono fondati su affinità più profonde.
Viaggiare in questo modo è scomodo, perché impone di lasciare un ordine abituale per immergersi in un disordine. Perché farlo, allora? Come risposta, suggerisco un brano tratto da Noi primitivi (1990) di Francesco Remotti, in cui l'autore commenta la locuzione giro più lungo coniata da Clyde Kluckholn per definire l'antropologia culturale.
Provate, leggendo, a sostituire l'espressione di Kluckholn con la parola viaggio:
«È ben difficile ammettere che il giro più lungo si risolva in una semplice conferma dell'ordine da cui si è partiti: sarebbe il fallimento di un secolo di antropologia, degli sforzi fisici e intellettuali di coloro che hanno preteso di studiare l'umanità negli angoli più sperduti del mondo. Ma anche l'annegare nel disordine sarebbe ovviamente un fallimento […] Il giro più lungo non è un tragitto che si compie una volta per tutte e il cui esito coinciderebbe con un ordine fisso e definitivo, ancorché alternativo rispetto all'ordine di partenza; il giro più lungo non termina con la configurazione di un ordine inamovibile, il quale prenderebbe il posto di un ordine precedente ritenuto illusoriamente intoccabile. Se l'esito del giro più lungo non dovrebbe coincidere con la riproposizione dell'ordine di partenza, né risolversi in un naufragio nel disordine, esso non si limita neppure alla sostituzione di un ordine alternativo, finalmente ritenuto più sicuro. L'esito più importante e decisivo del giro più lungo è l'idea della revocabilità di qualsiasi ordine si possa proporre, la convinzione che non soltanto il giro più lungo non coincide con un singolo itinerario, ma anche che non vi è un ritorno definitivo: il senso più profondo del giro più lungo è che, in realtà, esso non termina mai.»
Che cos'era l'edificio giapponese? Per scoprirlo bisognava entrarci:
La ricompensa? La miglior frittata okonomiyaki che avessi mai mangiato. Qualche mese prima non sapevo neanche cosa fosse.