giovedì 9 marzo 2017

Il Divagalibro - parte seconda




Abbiamo visto come gli incontri siano essenziali per il modo di viaggiare e di scrivere di Bruce Chatwin. Aggiungiamo che gli incontri che si fanno in un libro sono fondamentali anche per la nostra divagazione da un libro all'altro. 


Vediamo un esempio; il capitolo 19 di In Patagonia si conclude con questa frase:

Da Epuyen andai a piedi a Cholila, un abitato vicino alla frontiera cilena.

E il capitolo successivo si apre con una descrizione:

Misi la mano contro la parete. L'aria passava dalle fessure dove si era staccata la malta. La capanna di legno era fatta all'americana. In Patagonia le costruiscono in modo diverso e non chiudono gli interstizi con la malta.

Segue il dialogo fra il viaggiatore e gli attuali abitanti della capanna, i signori Sepúlveda. Ma nel capitolo 21 scopriamo che:

Il costruttore della capanna era stato un americano già non più giovane nel 1902, abbastanza ben piantato, con capelli sale e pepe, dita affusolate e un corto naso romano. Aveva un modo di fare piacevolmente disinvolto e un sorriso malizioso. Si doveva sentire a casa sua, lì a Cholila, perché la campagna era identica ad alcuni luoghi del suo stato natale, lo Utah: aria pura e grandi spazi, neri altipiani rocciosi e montagne azzurre, e boscaglia grigia interrotta qua e là da distese di fiori gialli; un paese di ossami ripuliti dagli avvoltoi, sferzato da un vento così forte da scorticarti vivo. Quell'inverno era solo. Gli piaceva molto leggere e si faceva prestare dei libri da un vicino inglese. […] Scrivere non gli riusciva facile, tuttavia trovò il tempo di buttar giù questa lettera a una amica del suo paese:
[…] Sarete sorpresa di ricevere mie notizie da questa terra così lontana, ma negli ultimi due anni gli Stati Uniti erano diventati troppo piccoli per me. Ero inquieto. […] un altro mio zio morì lasciando 30.000 dollari alla nostra famigliola di 3 persone, così ho preso i miei 10.000 e mi sono messo in viaggio per vedere un altro po' di mondo. […]
Lo zio morto cui si accenna nella lettera era in realtà la rapina ai danni della First National Bank di Winnemucca, nel Nevada, compiuta, il 10 settembre 1900, dalla banda del Wild Bunch. L'autore della lettera era Robert Leroy Parker, meglio noto come Butch Cassidy, nome a quel tempo in testa alla lista dell'Agenzia Pinkerton dei criminali più ricercati. La «piccola famiglia di 3 persone» era un ménage à trois formato da lui stesso,da Harry Longbaugh detto il Sundance Kid, e dalla bella amante dei due banditi, Etta Place.

Dopo questo incontro con la capanna di Butch Cassidy, gli spostamenti e la narrazione di Chatwin incroceranno spesso i luoghi e le vicende di cui i due fuorilegge furono protagonisti. Per noi, è l'occasione per spostarci verso un altro racconto, questa volta sotto forma di fumetto: Y todo a media luz di Hugo Pratt. 


Il protagonista è Corto Maltese, che in questa avventura raggiunge l'Argentina sulle tracce di una amica misteriosamente scomparsa. Nel numero di ottobre 1985 della rivista Corto Maltese, la quinta puntata di Y todo a media luz è introdotta da un testo di Pratt stesso, dal titolo L'ultima pista. Nel sottotitolo si legge:

Nel 1902 parecchi fuorilegge nordamericani si rifugiarono in Patagonia. Tra questi Butch Cassidy, ladro di bestiame e rapinatore di banche a tempo perso, legato in un bizzarro ménage à trois a Sundance Kid e Etta Place.

Poi Pratt scrive:

Il paesaggio è bellissimo. Maestoso. Oggi come ieri, e l'ieri che ci interessa era un lontano giorno di maggio del 1901. In quella stagione, al contrario del nostro emisfero boreale, laggiù in Patagonia comincia l'autunno. Dall'alto di una collina tre individui a cavallo guardavano i non lontani monti macchiati di neve del Cordon Cholila. Qualche centinaio di metri da loro, giù per un dolce declivio, c'era un boschetto di nogales e alti arbusti di calafates che si ergevano sulla confluenza del Rio Blanco con un braccio dell'Arroyo Nutria. Osservandoli bene si notava che non doveva essere gente del luogo. Le loro selle erano di fattura messicana, assai differenti dalle «monturas criollas» argentine fatte con pelli di pecora. […] Uno di loro aveva gli occhi infossati stretti e azzurri, la bocca sottile con una piega ironica, dei baffi color sabbia e un mascellone ben squadrato; tutto sommato, ricordava un grosso gatto soddisfatto. L'altro, forse un poco più alto, aveva il volto dai lineamenti più regolari; il naso quasi greco, lo sguardo freddo, come l'altro azzurro, la bocca ben modellata incorniciata da una barba rossastra che aspettava da settimane il servizio di un buon rasoio. Il terzo, più giovane, era di costituzione minuta ed elegante; il volto dagli zigomi alti era molto bello, la bocca carnosa, gli occhi grigi e il naso ben disegnati. Anche se indossava abiti di taglio maschile, il terzo cavaliere era una giovane donna […] “Sono tre giorni che giriamo qui intorno e ci fermiamo sempre in questo posto a guardarlo e riguardarlo in silenzio...”, disse l'uomo con gli occhi infossati, “un motivo ci deve pur essere”. La donna con un sospiro continuò ad alta voce il pensiero dell'altro: “Hai ragione, Butch, il luogo ricorda abbastanza il paese di Circleville sulla vecchia pista spagnola lassù nello Utah”. […] “Bene!”, la voce dalla strascicata pronuncia del Sud del cavaliere dallo sguardo freddo ruppe il silenzio che si era creato. “Allora questo sarà il posto dove costruiremo la casa”.

Dopo aver ricostruito l'arrivo dei banditi in Argentina, Pratt rivela che:

In occasione di quel viaggio, era il giugno del 1951, non sapevo niente dei fuorilegge yankees che avevano vissuto e imperversato nel territorio del Chubut andino […] Fu molto più tardi, leggendo In Patagonia di Chatwin, che mi resi conto di come ero stato vicino a quell'ultima pista. E allora sono ritornato negli antichi luoghi per verificare di persona tutto quello che avevo trascurato nella mia ebetudine giovanile. […] Ora il materiale che siamo riusciti a recuperare farebbe invidia all'Agenzia Pinkerton.

Questo materiale è confluito nell'avventura argentina di Corto Maltese e, infatti, nell'ottava puntata del fumetto (Corto Maltese, gennaio 1986), Corto ritrova Butch a Buenos Aires. L'americano lo salva da un killer che lo voleva uccidere e poi rievoca il loro precedente incontro:

Eri un ragazzo quando ti vidi l'ultima volta laggiù in Patagonia. Sono passati parecchi anni da allora... molte cose sono cambiate...

Hugo Pratt fa spesso incontrare Corto Maltese con personaggi storici, per esempio in avventure come La casa dorata di Samarcanda o La giovinezza (in cui il protagonista fa amicizia, tra gli altri, con Jack London). Insieme con un altro disegnatore, Lele Vianello (con il quale aveva compiuto il secondo viaggio in Patagonia), Pratt ha scritto anche una guida di Venezia, Corto Sconto, in cui i luoghi sono descritti mescolando i fatti storici agli avvenimenti della vita di Corto Maltese.
Il personaggio di cui un autore/viaggiatore ricalca i passi può anche essere un altro scrittore, e allora il viaggio si svolgerà sulle orme di quanto raccontato in un libro precedente, che diventa una guida. Chatwin dichiara apertamente di averne avuta una, La via per l'Oxiana di Robert Byron. 


Questi viaggiò fra l'agosto del 1933 e il luglio del 1934 in Medio Oriente, Afghanistan e Iran, luoghi nei quali Chatwin andrà negli anni Sessanta e Settanta (come è documentato in due libri che raccolgono le sue fotografie, L'occhio assoluto e Sentieri tortuosi). La via per l'Oxiana è stato ripubblicato con una introduzione scritta da Chatwin nel 1980, nella quale egli stesso svela la sua mania:

Io scrivo da partigiano, non da critico. Da molto tempo ho elevato questo libro al grado di «testo sacro», e quindi al di là di ogni critica. La mia copia personale – ormai priva della rilegatura e tutta macchiata dopo quattro viaggi in Asia centrale – mi accompagna da quando avevo quindici anni. […] A volte incontravamo viaggiatori più intellettuali di noi che seguivano le orme di Alessandro o di Marco Polo; per noi era molto più divertente seguire quelle di Robert Byron. Conservo certi taccuini che dimostrano con quale ossequio servile io ricalcassi il suo itinerario e – come se fosse possibile – il suo stile. Prendete, per esempio, questi miei appunti del 5 luglio 1962 [Chatwin aveva allora 22 anni] e confrontateli con i suoi del 21 settembre 1933:
«Nel pomeriggio siamo andati a trovare il signor Alouf, l'antiquario. Ci ha fatto entrare in un appartamento pieno di mobili “francesi” trattati con gommalacca, quasi tutti crivellati dai tarli e rivoltati sottosopra. […] Da un armadio ha tirato fuori quanto segue: Un pettorale romano, d'oro, con patacche azzurre incastonate. Falso. Un idolo neolitico, di marmo, col fallo eretto, sul relativo piedistallo. Il piedistallo era autentico, l'idolo no. Trenta bambole funerarie siro-fenicie in osso. Una figura “ittita”, pullulante di attributi d'oro, forse quella che Byron vide nel 1933. Falsa. Un assortimento di inquietanti oggetti d'oro. Una collezione di vetri paleocristiani (autentici). […] Infine, una testa di marmo di Alessandro Magno. “Per questo pezzo ho rifiutato ventimila dollari. VENTIMILA DOLLARI! Tutti gli archeologi dichiarano che la mia è l'unica testa autentica di Alessandro. Guardi il collo! Le orecchie!”. Forse – ma della faccia non era rimasto niente».

Byron aveva raccontato così il suo incontro, avvenuto a Damasco, con la stessa persona:

L'albergo appartiene al signor Alouf; all'ultimo piano abitano i suoi figli. Una sera ci ha condotti in una cantina priva d'aria, dove c'erano delle vetrine allineate lungo le pareti e una cassaforte. Ne ha preso i seguenti oggetti: una coppia di grosse coppe d'argento, stampigliate di simboli cristiani, e un dipinto dell'Annunciazione; un documento scritto su un pezzo di stoffa color del fango, lungo poco più di un metro e largo quarantacinque centimetri circa, che dovrebbe essere il testamento di Abu Bakr, il primo califfo, e a quanto si dice sarebbe stato portato da Medina dalla famiglia di re Hussein nel 1925; una bottiglietta bizantina di vetro turchino, intatta, alta una ventina di centimetri e sottile come un guscio d'uovo; una testina ellenistica d'oro, con le labbra socchiuse, gli occhi di vetro e sopraccigli di un azzurro vivace; infine, una statuetta d'argento alta ventiquattro centimetri, che in mancanza di altri termini di paragone il signor Alouf ha definito ittita. Se è autentica, dev'essere una delle più notevoli scoperte degli ultimi anni in Medio Oriente. […]

Se il viaggio, per scrittori come Chatwin, è essenzialmente incontro con persone, e sono queste che nel racconto vengono descritte e messe in evidenza, che ruolo ha il viaggiatore? La prima impressione è che questi rimanga in disparte e si limiti a registrare storie e conversazioni, al contrario di quanto avveniva nel romanzo ottocentesco d'esplorazione e d'avventura, nel quale spesso narratore e protagonista coincidevano. Questa assenza suggerisce uno stile di viaggio e di scrittura aperto all'ascolto e all'osservazione, senza ossessioni di protagonismo, ma va anche ricordato che il ruolo di Chatwin non è passivo, perché le conversazioni devono essere stimolate e le storie “tirate fuori” a chi le conosce. Prima ancora, le persone vanno incontrate, a casa loro bisogna andarci, bisogna muoversi.
Lo scrittore/ascoltatore, comunque, non rinuncia completamente a esporre i suoi pensieri. Li inserisce nei dialoghi, sotto forma di domande, come fa, per esempio in Le Vie dei Canti nel capitolo dedicato all'incontro con Konrad Lorenz; 


oppure le fa emergere nelle conversazioni, come accade, sempre nello stesso libro, in questo scambio capitolo 25):

«La rinuncia» dissi «può essere una soluzione anche di questi tempi».
«Forse hai ragione» disse Arkady. «Se il mondo ha un futuro, è un futuro ascetico».

Le persone incontrate da Chatwin quasi esauriscono la gamma di varietà del genere umano. Si va dalle più note a quelle apparentemente senza importanza. Lo scrittore sa fare anche di queste ultime dei personaggi e, così, avere l'occasione di parlare indirettamente di sé. Scelgo un esempio da un capitolo di Le Vie dei Canti, intitolato Dai taccuini; è un episodio avvenuto a Nouakchott, in Mauritania:

Ai margini della città tre ragazzini smisero di tirar calci al pallone per corrermi incontro. Il più piccolo, invece di chiedermi soldi o l'indirizzo, intavolò una conversazione molto seria. Qual era la mia opinione sulla guerra nel Biafra? Quali erano le cause del conflitto arabo-israeliano? Che cosa pensavo della persecuzione hitleriana degli ebrei? Dei monumenti dei faraoni egiziani? Dell'antico impero almoravide?
«Ma tu» gli domandai «chi sei?»
Mi fece un rigido saluto militare.
«Sall Zakaria sall'Muhammad» trillò con squillante voce di soprano. «Figlio del Ministro dell'Interno!».
«E quanti anni hai?».
«Otto».
Il mattino dopo arrivò una jeep per portarmi dal Ministro.
«Mi risulta, cher Monsieur, che lei ha conosciuto mio figlio. Una conversazione molto interessante, mi ha detto. Da parte mia vorrei invitarla a cena da noi, e sapere se posso in qualche modo esserle d'aiuto».

Ci sono anche passaggi in cui Chatwin, dopo aver raccontato un avvenimento della vita di personaggi leggendari, riferisce con noncuranza un episodio capitato a lui stesso, simile nella sostanza al primo. Così avviene, per esempio, nel capitolo 29 di In Patagonia, in cui parla di Wilson e Evans, nomi sotto i quali forse si celarono Butch Cassidy e Sundance Kid:

Nel dicembre del 1911 Wilson e Evans scesero a Rio Pico per rifornirsi di provviste nel negozio di due fratelli tedeschi di nome Hahn. […] Wilson aveva una mano gonfia per un'infezione. Una cartuccia, che stava riempiendo di polvere, era esplosa. Donna Guillermina Hahn gli aveva medicato la ferita e i due erano tornati al loro rifugio in montagna.
[…] Sulla via del ritorno a Las Pampas, mentre a piccolo galoppo deviavo bruscamente per scansare dei rami bassi che attraversavano la pista, mi si ruppe la cinghia della sella e caddi da cavallo sulle aguzze rocce del terreno. […] Avevo una mano ferita fino all'osso e scendemmo a Rio Pico per farla medicare.

Dopo essere stato da una dottoressa, lo scrittore va a cercare i discendenti degli Hahn e si ritrova a parlare con loro nella cucina in cui Wilson era stato medicato. Sta in questo modo sovrapponendo le proprie avventure a quelle dei personaggi leggendari? Lo fa soltanto per ironizzare su stesso, sminuendosi nel confronto, o per rendere leggendari anche i propri viaggi e, di conseguenza, il proprio personaggio?
Vagabondando fra libri pieni di incontri, ne possono capitare di un altro piacevole genere. Una ventina di anni fa, in Messico, curiosando nel negozio di un rigattiere di Real de Catorce, scoprii l'esistenza dei francobolli creati da un pittore di nome Donald Evans. Ne acquistai una riproduzione che conteneva anche una nota biografica, breve ma sufficiente per delineare un personaggio molto interessante. Qualche mese dopo lessi per la prima volta un altro libro di Chatwin, Che ci faccio qui?, e con grande sorpresa ci trovai un capitolo dedicato alla vita di Donald Evans. Il libro è costruito interamente su ritratti di persone incontrate dall'autore, ed è diviso in sezioni chiamate Amici, Persone, Incontri, Strani incontri, Altre due persone e così via. Il titolo è tratto da una lettera di Arthur Rimbaud, scritta dall'Etiopia, e compariva già, come frammento, nel capitolo Dai taccuini di Le Vie dei Canti; capitolo, va detto, che costituisce un esempio di una tecnica di scrittura, ma anche di viaggio, che Chatwin utilizza spesso, e che consiste nell'alternare la narrazione degli avvenimenti (nel viaggio, gli spostamenti) con l'esposizione di appunti presi durante precedenti viaggi (nel viaggio, fermarsi a scrivere, riordinare i taccuini o leggere materiali sui luoghi attraversati).


Rimbaud è un autore che Chatwin cita più volte; le lettere che scrisse ai familiari fra il 1880 e il 1891 contraddicono lo stereotipo dell'esploratore avventuroso e entusiasta; il 22 settembre 1880, per esempio, da Aden, sulla costa yemenita, Rimbaud scrive:

Aden è, lo riconoscono tutti, il posto più noioso della terra, tuttavia subito dopo quello abitato da voi [i familiari vivono a Charleville, nelle Ardenne, una città che dieci anni prima Arthur, sedicenne, aveva descritto come “superlativamente idiota fra tutte le cittadine di provincia”].

Da Harar, in Etiopia, il 15 febbraio 1881, spiega:

Non ho trovato quel che presumevo; vivo in modo assai noioso, e senza profitti.

Nuovamente da Aden, il 5 maggio 1884, aggiunge:

Che esistenza desolante la mia, in questi climi assurdi e in queste condizioni insensate!

Infine, da Harar, il 4 agosto 1888, conclude:

Mi annoio molto, sempre; anzi, non ho mai conosciuto nessuno che si annoi quanto me.

Anche Chatwin rifiuta per sé il cliché dell'esploratore temerario; in Le Vie dei Canti, conclude così il capitolo 32:

Nel torrente c'era un rigagnolo, e sulle sponde crescevano dei cespugli. Mi buttai un po' d'acqua in faccia e proseguii. Avevo alzato la gamba destra per fare un passo quando dissi tra me e me: «Sto per pestare qualcosa che sembra una pigna verde». Quello che non avevo ancora visto era la testa del serpente mulga che si rizzava dietro un cespuglio, pronta a scattare. Mossi la gamba al contrario e pian piano indietreggiai... uno... due... uno... due. Anche il serpente batté in ritirata, e sparì in un buco. «Però, come sono calmo» mi dissi, finché sentii arrivare la nausea.
All'una e mezza ero di nuovo a Cullen.
Rolf mi squadrò e disse: «Hai proprio l'aria distrutta, caro mio».

Avevamo iniziato la divagazione chiedendoci perché Chatwin fosse partito per la Patagonia. Ora vorrei allargare la domanda e chiedere perché alcuni scrittori, e anche altre persone, partano alla volta di luoghi in qualche modo connessi a lontani ricordi giovanili. La risposta la prendo dallo Zibaldone di Giacomo Leopardi, per la precisione dall'appunto del 16 gennaio 1821:



Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono, un racconto, una descrizione, una favola, un'immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago e infinito: […] ogni piacere, ogni aspettativa, ogni disegno, illusione, ecc. di quell'età tien sempre all'infinito: e ci pasce e ci riempie l'anima indicibilmente, anche mediante i minimi oggetti. […] Osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; […] vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ecc., perché ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine ecc. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze. […] (Così io, nel rivedere quelle stampe piaciutemi vagamente da fanciullo, quei luoghi, spettacoli, incontri ecc. nel ripensare a quei racconti, favole, letture, sogni ecc. nel risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o nella prima gioventù ecc.) In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano, giacché le proviamo se non rispetto e in virtù della fanciullezza.


Il presente testo è stato presentato il 9 novembre 2017 al corso di Geoletteratura organizzato dall'Associazione Italiana Insegnanti di Geografia, presso il Liceo Avogadro di Torino.

1 commento:

  1. Particolarmente interessante e molti docenti ne hanno tratto e ne trarranno ispirazione in classe

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