sabato 16 gennaio 2016

Salvatore Rizzuti, lo scultore di Caltabellotta


Salvatore Rizzuti ha donato trentatré delle sue opere al Museo Civico di Caltabellotta, sua città natale. L'aggettivo che meglio le descrive è: potenti. Vale per le sculture di Rizzuti quanto scrisse Henry Moore: «Esiste una differenza funzionale tra la bellezza di espressione e la potenza di espressione. Mentre la prima non ha altro scopo che di piacere ai sensi, nella seconda si ritrova una vitalità spirituale in grado di suscitare un coinvolgimento ben più profondo, non limitato a una sensualità di superficie.»1

Quando, nel 1982, gli venne chiesto di realizzare un'opera che commemorasse i Vespri siciliani, Rizzuti decise di rappresentare la violenza subita dai siciliani da parte dell'invasore Carlo d'Angiò, senza tacere il ruolo del papa Clemente IV regista dell'operazione (ideata dal suo predecessore Urbano IV). Nell'opera, quindi, la Sicilia è la donna al centro del gruppo, violentata da Carlo mentre il papa la tiene bloccata incatenandole i polsi.


La cattiva maestra, del 1986, rimanda all'intervista rilasciata nel 1993 da Karl Popper (inizialmente intitolata Against television, verrà pubblicata in Italia l'anno successivo appunto con il titolo Cattiva maestra televisione).


Nel 2014, in occasione della donazione, Rizzuti scrisse: «Penso che l'artista non possa e non debba sfuggire al senso dell'universale, per cui ogni luogo è buono e opportuno; ogni luogo è centro del mondo; nel caso specifico Caltabellotta è il centro del mondo, poiché in ogni luogo in cui ci si trova si irradia la percezione del mondo; non a caso gli umanisti del Rinascimento compresero e codificarono questo concetto meglio che in qualsiasi altro tempo.»

A dieci anni, aveva creato questo fucile giocattolo:


Quale sarà stato il rapporto fra la lettura dei fumetti di Tex Willer e il profondo senso della giustizia che lo scultore manifesterà nelle sue opere? Questo valore si era già formato in lui e perciò il giovanissimo Salvatore prediligeva l'eroe di Bonelli o, viceversa, il ranger ha rappresentato un modello da imitare?



1 Sulla scultura, Abscondita, Milano 2002, p. 17.

lunedì 11 gennaio 2016

Il Cretto di Burri




Nel 1981 Ludovico Corrao, sindaco della nuova Gibellina, invita Alberto Burri a visitare la città. Negli anni precedenti Corrao aveva chiamato altri artisti a realizzarvi le loro opere. Per gli anni Settanta, una duplice utopia: disseminare l'arte nelle vite quotidiane delle persone, scegliendo come arte quella contemporanea.

Burri ricorda: «Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l'idea: ecco, io qui mi sento che potrei fare qualcosa.»1

Negli anni Settanta, Burri aveva realizzato una serie di opere in caolino e vinavil che, per via della cottura o dell'essiccazione, presentavano una superficie fessurata. Le chiamò Cretti; le ultime erano di grandi dimensioni, fino a quindici metri di lato. Presso i ruderi di Gibellina maturò il progetto del Grande Cretto.

Nel 1984 le macerie della case distrutte dal terremoto vennero ammucchiate e livellate in blocchi alti circa un metro e mezzo, tenuti insieme da reti metalliche. Corrao ottenne per l'operazione l'intervento dell'esercito. Sui blocchi venne colato cemento liquido bianco; ampie fenditure, larghe un paio di metri, li separano uno dall'altro.


Se fotografato solo in parte e dall'alto, il Grande Cretto è un cretto come gli altri; visto da lontano insieme con il paesaggio circostante, è una pietra sepolcrale posta sul prato di un cimitero.


Non ci si avvicina ad essa, però, per leggere i nomi dei defunti, ci si entra camminando nelle fenditure. Si capisce, in tal modo, che queste non sono fessurazioni casuali come quelle prodotte nei piccoli cretti dalla cottura; sono le vie di un paese, un tempo percorse dai suoi abitanti. Il visitatore è trasportato nei luoghi per eccellenza della vita sociale e allo stesso tempo costretto a constatare che la vita non vi scorre più.


Ancor più delle rovine dei non lontani templi di Selinunte e Segesta, i blocchi bianchi e grigi2 di cemento rendono percepibile l'assenza, la scomparsa di chi in quei luoghi ha vissuto.


Qui altre foto del Grande Cretto.

1 Tratto da Gibellina Arte Contemporanea, Ali&no editrice 2014, p. 28.

2 I lavori venero interrotti nel 1989, e terminati nel 2015: perciò, il diverso colore delle due parti.