sabato 17 settembre 2016

Un pellegrinaggio resistente, laico e europeista. Deviazioni dalla Via Francigena fra Lucca e Roma.



1943-45: alcuni giovani di Castiglione d'Orcia (SI), fra i quali Giorgio Formichi, sfuggono avventurosamente all'esercito della Repubblica di Salò e si uniscono ai partigiani giellisti della Brigata Maira. Opereranno nella zona di Dronero (CN) fino alla Liberazione.
1970: i partigiani della Brigata Maira costruisco a S. Margherita di Dronero un rifugio intitolato al loro comandante Detto Dalmastro. Negli anni successivi, un gruppo di giovani della sezione ANPI di Formia (LT) inizia a frequentare il rifugio, così come i partigiani della val d'Orcia e i loro familiari.
1987: si sancisce ufficialmente il gemellaggio fra il Rifugio della Margherita e la sezione ANPI di Castiglione d'Orcia.
2012-15: ormai molti partigiani sono mancati, ma nel frattempo alla Margherita è nata un'associazione che si propone di conservarne la memoria e di infondere nuova vita al Rifugio, traducendo nella pratica i valori della Resistenza e della Costituzione. Fra i primi obiettivi, rivitalizzare il legame con gli amici di Castiglione e di Formia. Questi ultimi tornano al Rifugio già nel 2012. Nel 2014 viene a mancare Giorgio Formichi, e l'anno seguente i suoi nipoti (e pronipoti) ritornano dopo lungo tempo alla Margherita, portando con sé una lettera in ricordo di Giorgio scritta dal figlio Maurizio.

2016: cinque soci dell'associazione degli amici del Rifugio si incamminano sulla Via Francigena in direzione di Castiglione d'Orcia (dove arrivano a piedi, partiti chi da Lucca e chi da Siena) e di Formia (che raggiungono in treno da Roma, al termine della camminata).

Non c'è retorica in questi incontri; nessuno partecipa per mettersi in mostra in vista di una carriera politica. C'è la profonda riconoscenza, mista a affetto e ammirazione, per i padri e i nonni che hanno fatto la Resistenza. L'abbiamo sentita forte, una vampa nel petto, alla fine di una cena durante la quale ci siamo scambiati lunghi racconti. I padri e i nonni erano lì con noi, e nessuno si sarebbe stupito se li avesse visti entrare nella stanza e sedersi, in carne e ossa, al nostro tavolo.
Ma non c'è solo memoria, in questi incontri, e neanche soltanto amicizia. C'è la voglia di costruire insieme, la voglia di sentire nel cuore, nella testa e nelle braccia quella cosa grazie alla quale i padri e i nonni fecero quello che fecero: l'unità.

A Formia, gli amici del posto ci portano a concludere nel modo migliore il nostro pellegrinaggio: alle isole di Santo Stefano e Ventotene. A Santo Stefano, i regimi che hanno oppresso l'Italia rinchiudevano chi lottava per la libertà e per la giustizia: i liberali al tempo dei Borboni, gli anarchici nell'età umbertina, i socialisti e i comunisti durante il fascismo. Qui hanno sofferto uomini come Luigi Settembrini, Gaetano Bresci e Sandro Pertini. 


Altri antifascisti vennero confinati a Ventotene, fra i quali Altiero Spinelli. Quest'ultimo lo si definisce da anni un padre dell'Europa, e da qualche mese si invoca il suo Manifesto per rinvigorire la traballante Unione Europea.


Nel Manifesto di Ventotene, però, non si parla di unità europea con la vuota superficialità dei leader politici del nostro tempo. Ci sono analisi e proposte, di cui oggi si tace, che andrebbero urgentemente rilette, confrontate con la situazione politica e economica attuale e discusse.
Innanzitutto, nell'agosto 1941, Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni spiegavano così quanto era avvenuto in Europa negli anni precedenti:

i ceti privilegiati che avevano consentito all'uguaglianza dei diritti politici non potevano ammettere che le classi diseredate se ne valessero per cercare di realizzare quell'uguaglianza di fatto che avrebbe dato a tali diritti un contenuto concreto di effettiva libertà. Quando, dopo la fine della prima guerra mondiale, la minaccia divenne troppo forte, fu naturale che tali ceti applaudissero calorosamente ed appoggiassero le instaurazioni delle dittature che toglievano le armi legali di mano ai loro avversari. D'altra parte la formazione di giganteschi complessi industriali e bancari e di sindacati riunenti sotto un'unica direzione interi eserciti di lavoratori, sindacati e complessi che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo stato stesso in tante baronie economiche in acerba lotta tra loro. Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per meglio sfruttare l'intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, abolendo la libertà popolare, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere.

Di fatto poi i regimi totalitari hanno consolidato in complesso la posizione delle varie categorie sociali nei punti volta a volta raggiunti, ed hanno precluso, col controllo poliziesco di tutta la vita dei cittadini e con la violenta eliminazione dei dissenzienti, ogni possibilità legale di correzione dello stato di cose vigente. Si è così assicurata l'esistenza del ceto assolutamente parassitario dei proprietari terrieri assenteisti, e dei redditieri che contribuiscono alla produzione sociale solo col tagliare le cedole dei loro titoli, dei ceti monopolistici e delle società a catena che sfruttano i consumatori e fanno volatilizzare i denari dei piccoli risparmiatori, dei plutocrati, che, nascosti dietro le quinte, tirano i fili degli uomini politici, per dirigere tutta la macchina dello stato a proprio esclusivo vantaggio, sotto l'apparenza del perseguimento dei superiori interessi nazionali. Sono conservate le colossali fortune di pochi e la miseria delle grandi masse, escluse dalle possibilità di godere i frutti delle moderna cultura. E' salvato, nelle sue linee sostanziali, un regime economico in cui le risorse materiali e le forze di lavoro, che dovrebbero essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali per lo sviluppo delle energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla soddisfazione dei desideri più futili di coloro che sono in grado di pagare i prezzi più alti; un regime economico in cui, col diritto di successione, la potenza del denaro si perpetua nello stesso ceto, trasformandosi in un privilegio senza alcuna corrispondenza al valore sociale dei servizi effettivamente prestati, e il campo delle alternative ai proletari resta così ridotto che per vivere sono costretti a lasciarsi sfruttare da chi offra loro una qualsiasi possibilità d'impiego.

Colorni, Rossi e Spinelli proseguivano con proposte chiare e precise in campo economico:

Un'Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l'era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era sarà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne impedivano l'attuazione, saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita.

Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma - come avviene per forze naturali - essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. Le gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse individuale, non vanno spente nella morta gora della pratica "routinière" per trovarsi poi di fronte all'insolubile problema di resuscitare lo spirito d'iniziativa con le differenziazioni dei salari, e con gli altri provvedimenti del genere dello stachenovismo dell'U.R.S.S., col solo risultato di uno sgobbamento più diligente. Quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività. La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio.

Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto oramai indispensabile dell'unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:

A non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un'attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad esempio le industrie elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l'esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l'importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa (es. industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E' questo il campo in cui si dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti;

B le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire, durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gl'istrumenti di produzione di cui abbisognano, onde migliorare le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè ad una riforma agraria che, passando la terra a chi coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l'azionariato operaio, ecc.;

C i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di perseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà preparare, in ogni branca di studi per l'avviamento ai diversi mestieri e alla diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi pressappoco eguali, per tutte le categorie professionali, qualunque possano essere le divergenze tra le rimunerazioni nell'interno di ciascuna categoria, a seconda delle diverse capacità individuali;

D la potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa dei generi di prima necessità con la tecnica moderna, permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l'alloggio e il vestiario col minimo di conforto necessario per conservare la dignità umana. La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori;

Questi sono i cambiamenti necessari per creare, intorno al nuovo ordine, un larghissimo strato di cittadini interessati al suo mantenimento e per dare alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale. Su queste basi le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto e non solo formale per tutti, in quanto la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e continuo controllo sulla classe governante.

Infine, le loro parole su una questione sociale rimasta irrisolta:

la Chiesa cattolica continua inflessibilmente a considerarsi unica società perfetta, a cui lo stato dovrebbe sottomettersi, fornendole le armi temporali per imporre il rispetto della sua ortodossia. Si presenta come naturale alleata di tutti i regimi reazionari, di cui cerca approfittare per ottenere esenzioni e privilegi, per ricostruire il suo patrimonio, per stendere di nuovo i suoi tentacoli sulla scuola e sull'ordinamento della famiglia. Il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l'alleanza col fascismo andrà senz'altro abolito, per affermare il carattere puramente laico dello stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato sulla vita civile. Tutte le credenze religiose dovranno essere ugualmente rispettate, ma lo stato non dovrà più avere un bilancio dei culti, e dovrà riprendere la sua opera educatrice per lo sviluppo dello spirito critico.


A Ventotene ho ambientato il racconto Sognando l'evasione, inserito nell'antologia Sull'isola, edizione 2020 della collana Pagine in viaggio di Neos Edizioni.


Il racconto sarà presentato

mercoledì 30 novembre 2022
alle 17,30
al circolo TeArt
via Giotto,14
Torino

giovedì 15 settembre 2016

La Resistenza nella zona di S. Margherita di Dronero




L'oppressione nazifascista colpisce la Val Maira fin dal gennaio 1944, quando i principali antifascisti di Dronero vengono arrestati e avviati ai campi di sterminio in Germania. Nello stesso periodo si organizzano le formazioni partigiane che condurranno in valle la Resistenza.


Nella zona di S. Margherita si stabilisce un gruppo comandato da Detto Dalmastro, il Raggruppamento Maira”, che sarà parte delle formazioni “Giustizia e Libertà” ispirate al socialismo liberale di Carlo Rosselli e del Partito d'Azione.
A Ruà del Prato vengono accolte le reclute, poi smistate alle bande stabilitesi nelle borgate a monte. L'osteria del Belvedere a S. Margherita, gestita da Margherita Rovera detta Tin, è il crocevia in cui partigiani e staffette si incontrano e riforniscono. Nella frazione Ghio si trova il forno utilizzato, di notte, per panificare. Il monte Cauri è il rifugio estremo in caso di attacco nemico.
A marzo una baita della borgata Assarti diventa la prima tipografia partigiana, dove Aurelio Verra compone il giornale Giustizia e Libertà - Notiziario dei Patrioti delle Alpi Cozie; a maggio, si stringono accordi con la Resistenza francese, in particolare con il comandante Jean Lippmann a cui è dedicata la lapide posta a Paglieres.
Rastrellamenti e imboscate nazifasciste si susseguono fino a giugno '44, quando i partigiani riescono a liberare l'intera valle e costituire, il 6 luglio, la Repubblica di Val Maira. La borgata Assarti è la sede della I banda della Brigata Maira, che insieme con la Brigata Varaita forma la Seconda Divisione Alpina “Giustizia e Libertà”; il 17 luglio viene scelta dagli Alleati per il primo aviolancio di materiale bellico destinato ai partigiani della valle.
A Cartignano il dottor Mario Pellegrino (Grio) attrezza nel municipio il primo ospedaletto per i partigiani della zona.


Il 30 luglio i tedeschi attaccano: Cartignano e San Damiano sono bombardate e incendiate; nonostante i contrattacchi partigiani, i nazisti occupano la valle alla fine di agosto. I feriti vengono trasferiti prima a Ponte Marmora e poi a Chiappera; infine, l'ospedaletto viene installato a Paglieres, già base della III banda della Brigata Maira. In autunno la resistenza continua nelle borgate, ma anche lì giungono le imboscate: agli Assarti, per esempio, il 30 dicembre i fascisti uccidono Ciccio Cusati e Prit Rovera. I due partigiani riposano nel cimitero di S. Margherita, insieme con i compagni che, sopravvissuti alla guerra, hanno chiesto di essere sepolti in questo luogo.

Nel gennaio del 1945 riprendono gli aviolanci degli Alleati, a Gerbido e Assarti; a febbraio i rastrellamenti nazifascisti.
Ad aprile le formazioni partigiane si schierano a difesa delle centrali idroelettriche e attaccano i presidii fascisti; il 26 liberano Dronero.

Dopo la guerra il Colletto della Margherita diventa il “santuario” delle formazioni partigiane “Giustizia e Libertà”: qui un cippo ricorda i caduti della Seconda Divisione Alpina, accomunati a Duccio Galimberti e Jean Lippmann.
Negli anni Sessanta, Grio e tanti altri partigiani che qui avevano vissuto e combattuto acquistano un terreno a monte della chiesa di S. Margherita, dove fra il 1968 e il 1970 viene edificato il rifugio, poi intitolato a Detto Dalmastro.
Così descrivono l'impresa:

Con il rifugio non abbiamo solo eretto un monumento, abbiamo cementato la nostra unità, che è stata sempre la nostra forza.”




lunedì 5 settembre 2016

Lviv, Europa


L'esplorazione delle regioni che furono parte dell'impero absburgico mi ha portato quest'anno in Galizia, acquisita dall'imperatrice Maria Teresa nel 1772 con la prima spartizione della Polonia. Oggi è divisa fra Polonia e Ucraina. Ebbe come capitale Leopoli, che, come tutte le città di questa parte dell'Europa centro-orientale, ora ha un altro nome: Lviv. Anzi, più di uno, perché polacchi e russi la chiamano Lvov.



Qui hanno vissuto uomini di talento e di genio, che hanno popolato la città di forme sorprendenti scaturite dalla loro fantasia”, scrive Yuriy Nykolychyn (potete acquistare il suo Lviv presso la libreria che si trova nella via Shevska; la preziosa guida di Ruben Atoyan, invece, è in vendita nella libreria della via Teatralna, all'incrocio con la Staroyevreiska – la “vecchia via ebraica”).
Poiché ogni edificio qui è impregnato di una idea umana elevata, la sua sola visione fa lavorare il cervello del passante in modo più intenso; dopo qualche ora a passeggio fra le vie di Lviv si comincia ad essere consapevoli delle capacità umane”. Incamminiamoci, dunque, e ricordiamoci di “ringraziare coloro che hanno manifestato la forza del loro spirito allo scopo di elevare la vita delle persone al di sopra della soddisfazione dei bisogni fisiologici”. Non viaggio nelle terre un tempo absburgiche per un nostalgico desiderio di un mondo passato, ma perché in queste città vissero persone intelligenti e sensibili, le cui creazioni – artistiche, culturali, politiche – possono risuonare in noi e renderci persone migliori.
Forse era questa una delle intenzioni degli architetti e degli artisti che, dal Rinascimento alla Secessione, hanno disseminato statue e bassorilievi sugli edifici del centro storico di Lviv. La città fu fondata alla metà del XIII secolo dal principe Danylo Halytskyi e dedicata al figlio Lev, perciò il leone è il suo simbolo e numerosi sono i leoni in pietra che si incontrano. Quello che si trova nella via Ruska 4 tiene in bocca un grappolo d'uva, e si dice che sorvegli gli osti affinché non truffino i clienti. Ride, e si dice che sia ubriaco, quello che si trova nella piazza Kathedralna 2. Al numero 14 di piazza Rynok, c'è un leone di San Marco: è sulla facciata del rinascimentale palazzo dove nel XVI secolo risiedevano i mercanti veneziani.
Palazzo Gecner, piazza Rynok 28: una serie di bassorilievi - a beneficio del passante che voglia percorrere la via della saggezza - illustra massime filosofiche tratte dalle Lettere a Lucilio di Seneca. Spesso si incontrano le divinità della mitologia classica: Venere e Marte, Amore e Psiche al 4 della via Krakivska, Crono al 20 della Virmenska (la via degli Armeni), Mercurio (che protegge l'ottocentesco palazzo delle ferrovie). I busti dei personaggi che hanno dato vita alla letteratura polacca classica si trovano al 9 della via Teatralna, al termine della quale si apre la piazza dedicata al più famoso del gruppo, Mickiewicz. Su di essa si affaccia l'Hotel George, che accoglie i viaggiatori provenienti da ogni continente con le sculture allegoriche di Europa, Asia, Africa e America (e con un bassorilievo raffigurante san Giorgio). Nella via dedicata a Les Kurbas, i bassorilievi delle maschere teatrali ci indicano il luogo in cui – secondo Nykolychyn - “il teatro aiuta a vivere, a resistere al grigiore della vita, e incita all'amore”. Lo stesso effetto produce la via Akademika Bohomoltsia, dove si concentrano i migliori edifici in stile Art Nouveau della città. Il monumento posto al centro di una piazzetta della via Pidvalna è dedicato a Ivan Fedorovych, il primo tipografo ucraino, che oggi invita i passanti al mercatino dei libri usati.



Fedorovych è uno dei molti “ponti” che ho incontrato durante questo viaggio. Chiamo così i personaggi che hanno reso culturalmente più ricco il passaggio da una città all'altra, anticipandolo o completandolo. Per esempio, a Lviv lo storico tipografo pubblicò nel 1574 gli Atti degli Apostoli, primo libro in lingua ucraina, un esemplare del quale vedrò tre giorni dopo nel museo del libro di Kiev.
Fin dal primo giorno di viaggio sono stato accompagnato dai “ponti”, i quali talvolta non si presentano subito come tali, forse per lasciarmi il successivo piacere del collegamento inaspettato. Per citane qualcuno: a Venezia ho “incontrato” Max Ernst alla Fondazione Peggy Guggenheim e l'ho ritrovato a Krakow in una mostra; a Vienna è Schiele il “ponte” rispetto a precedenti viaggi - come del resto Freud, Moser, Hundertwasser e altri - mentre Rilke e Lou von Salomé - “presenti” in due diversi musei - mi ricordano che quando a Kiev andrò ai monasteri delle grotte lo farò sulle loro orme; sempre a Vienna, la casa di Wittgenstein mi riporta alla lettura di Danubio di Magris, e c'è una mostra dedicata a Kiesler, la cui città natale è Chernivtsi, una delle mie mete in Ucraina; a Krakow, una delle opere di Max Ernst (uno dei surrealisti per cui Kiesler studiò l'allestimento di una esposizione) appartiene a Peter Shamoni, l'autore del film su Hundertwasser appena visto a Vienna (come il Trittico del Giudizio di Bosch, da cui forse Ernst ha preso spunto).



Questi innumerevoli ponti, come nella biblioteca de Il nome della rosa, finiscono per formare un labirinto; in una sala del Museo etnografico di Krakow, una didascalia cita Cszeslaw Milosz: “Un labirinto. Costruito ogni giorno con le parole, i suoni della musica, le pennellate dei dipinti, le sculture e le forme dell'architettura. Così antico e affascinante da visitare che chiunque vi entri, non ha più bisogno del mondo esterno; e fortificato, poiché è stato costruito in contrapposizione al mondo”. Una definizione dell'arte e della cultura, penso, verso le quali siamo sospinti da “un bisogno di ordine, ritmo e forma, le tre parole con cui combattiamo il caos e il nulla”.

Un labirinto dovrebbe per definizione spaventare, ma questo è invece assai attraente, perché perdersi al suo interno porta, in apparente contraddizione, al massimo dei guadagni: serenità interiore e piacere intellettuale. Questa è l'Europa in cui mi piace viaggiare.

sabato 16 gennaio 2016

Salvatore Rizzuti, lo scultore di Caltabellotta


Salvatore Rizzuti ha donato trentatré delle sue opere al Museo Civico di Caltabellotta, sua città natale. L'aggettivo che meglio le descrive è: potenti. Vale per le sculture di Rizzuti quanto scrisse Henry Moore: «Esiste una differenza funzionale tra la bellezza di espressione e la potenza di espressione. Mentre la prima non ha altro scopo che di piacere ai sensi, nella seconda si ritrova una vitalità spirituale in grado di suscitare un coinvolgimento ben più profondo, non limitato a una sensualità di superficie.»1

Quando, nel 1982, gli venne chiesto di realizzare un'opera che commemorasse i Vespri siciliani, Rizzuti decise di rappresentare la violenza subita dai siciliani da parte dell'invasore Carlo d'Angiò, senza tacere il ruolo del papa Clemente IV regista dell'operazione (ideata dal suo predecessore Urbano IV). Nell'opera, quindi, la Sicilia è la donna al centro del gruppo, violentata da Carlo mentre il papa la tiene bloccata incatenandole i polsi.


La cattiva maestra, del 1986, rimanda all'intervista rilasciata nel 1993 da Karl Popper (inizialmente intitolata Against television, verrà pubblicata in Italia l'anno successivo appunto con il titolo Cattiva maestra televisione).


Nel 2014, in occasione della donazione, Rizzuti scrisse: «Penso che l'artista non possa e non debba sfuggire al senso dell'universale, per cui ogni luogo è buono e opportuno; ogni luogo è centro del mondo; nel caso specifico Caltabellotta è il centro del mondo, poiché in ogni luogo in cui ci si trova si irradia la percezione del mondo; non a caso gli umanisti del Rinascimento compresero e codificarono questo concetto meglio che in qualsiasi altro tempo.»

A dieci anni, aveva creato questo fucile giocattolo:


Quale sarà stato il rapporto fra la lettura dei fumetti di Tex Willer e il profondo senso della giustizia che lo scultore manifesterà nelle sue opere? Questo valore si era già formato in lui e perciò il giovanissimo Salvatore prediligeva l'eroe di Bonelli o, viceversa, il ranger ha rappresentato un modello da imitare?



1 Sulla scultura, Abscondita, Milano 2002, p. 17.

lunedì 11 gennaio 2016

Il Cretto di Burri




Nel 1981 Ludovico Corrao, sindaco della nuova Gibellina, invita Alberto Burri a visitare la città. Negli anni precedenti Corrao aveva chiamato altri artisti a realizzarvi le loro opere. Per gli anni Settanta, una duplice utopia: disseminare l'arte nelle vite quotidiane delle persone, scegliendo come arte quella contemporanea.

Burri ricorda: «Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l'idea: ecco, io qui mi sento che potrei fare qualcosa.»1

Negli anni Settanta, Burri aveva realizzato una serie di opere in caolino e vinavil che, per via della cottura o dell'essiccazione, presentavano una superficie fessurata. Le chiamò Cretti; le ultime erano di grandi dimensioni, fino a quindici metri di lato. Presso i ruderi di Gibellina maturò il progetto del Grande Cretto.

Nel 1984 le macerie della case distrutte dal terremoto vennero ammucchiate e livellate in blocchi alti circa un metro e mezzo, tenuti insieme da reti metalliche. Corrao ottenne per l'operazione l'intervento dell'esercito. Sui blocchi venne colato cemento liquido bianco; ampie fenditure, larghe un paio di metri, li separano uno dall'altro.


Se fotografato solo in parte e dall'alto, il Grande Cretto è un cretto come gli altri; visto da lontano insieme con il paesaggio circostante, è una pietra sepolcrale posta sul prato di un cimitero.


Non ci si avvicina ad essa, però, per leggere i nomi dei defunti, ci si entra camminando nelle fenditure. Si capisce, in tal modo, che queste non sono fessurazioni casuali come quelle prodotte nei piccoli cretti dalla cottura; sono le vie di un paese, un tempo percorse dai suoi abitanti. Il visitatore è trasportato nei luoghi per eccellenza della vita sociale e allo stesso tempo costretto a constatare che la vita non vi scorre più.


Ancor più delle rovine dei non lontani templi di Selinunte e Segesta, i blocchi bianchi e grigi2 di cemento rendono percepibile l'assenza, la scomparsa di chi in quei luoghi ha vissuto.


Qui altre foto del Grande Cretto.

1 Tratto da Gibellina Arte Contemporanea, Ali&no editrice 2014, p. 28.

2 I lavori venero interrotti nel 1989, e terminati nel 2015: perciò, il diverso colore delle due parti.