giovedì 23 giugno 2011

Shikoku, un altro mondo



Quando iniziai ad interessarmi al pellegrinaggio dello Shikoku, a dicembre del 2010, rimasi affascinato dalle cifre: 88 templi buddhisti da visitare, percorrendo un anello di oltre 1200 km nella quarta isola dell'arcipelago giapponese, 45 giorni di cammino, più di 1200 anni di storia alle spalle. Lo chiamano O-henro-san, termine con il quale si indica anche il pellegrino che lo compie.
Man mano che raccoglievo informazioni, poi, mi divenne chiaro che la sua particolarità sta nella relazione che si stabilisce fra pellegrini e abitanti del luogo; la tradizione di accogliere gli henro con doni di varia natura, gli osettai, contribuisce a formare in essi la convinzione che lo Shikoku sia un “altro mondo” rispetto al resto del Giappone: per i seguaci di alcune scuole buddhiste è la Terra Pura del dio Amida, per altri è la tappa preparatoria del viaggio che ci attende dopo la morte, per qualcuno è il Giappone “di una volta”, per tutti è una terra sacra nella quale avvicinarsi alle divinità e ai santi, primo fra tutti Kōbō Daishi (774-835), al quale si attribuisce la fondazione del pellegrinaggio stesso. E un “altro mondo”, la cui cifra fosse la gentilezza, era esattamente ciò che cercavo quando, un paio di mesi prima, ero partito per il Giappone.
Per chi voglia compiere il pellegrinaggio a piedi e in un'unica soluzione, le condizioni climatiche ottimali si presentano soltanto in primavera o in autunno e, pertanto, la mia camminata si è svolta dal 2 aprile al 28 maggio 2011. Fin dalla prima settimana, mi sono trovato d'accordo con i pellegrini giapponesi: lo Shikoku è un luogo speciale. Innanzitutto, e non potrebbe essere altrimenti nella regione più rurale e meno densamente popolata del Paese, si cammina attorniati da giardini, piante e fiori: ciliegi, magnolie, azalee, forsythie, glicini, camelie. Colpiscono, poi, la cura e il senso della misura che caratterizzano gli ambienti trasformati dagli uomini, siano centri abitati, risaie oppure aiuole ai bordi delle strade; c'è un'osmosi fra il mondo dell'arte e quello ordinario: stili e materiali adoperati nei templi ispirano la costruzione di edifici e oggetti di uso comune, e i templi, a loro volta, accolgono la vita quotidiana delle persone al loro interno e ne risultano influenzati. Nel frequente attraversamento di paesi e villaggi, infine, il viandante sperimenta la generosità dei suoi abitanti; a me è capitato di ricevere in dono tutto ciò di cui avevo di volta in volta bisogno: cibo, caramelle, dolciumi e perfino denaro da persone che incontravo per strada; frutta, verdura e bibite dai negozianti; un paio di guanti da lavoro da un uomo che mi ha visto indaffarato a montare la tenda; riso e caffè caldi da una famiglia accanto alla cui casa mi ero accampato; sono stato ospitato gratuitamente in templi e case private; mi è stato offerto un passaggio in auto quando ho sbagliato strada e un ombrello quando è scoppiato un temporale; ho gustato thè, biscotti, libri e fumetti che qualcuno aveva disposto lungo il cammino. L'incontro con il prossimo non è mai una seccatura per gli abitanti dello Shikoku, ma l'occasione per un saluto, un sorriso e una parola di incoraggiamento.
Sono soprattutto questi sorrisi e queste parole che ricordavo alla sera, quando mi ritiravo in tenda, e che mi sono rimasti impressi alla fine del viaggio, ben più che i templi visitati o le salite affrontate per raggiungerli; non ci sono opere d'arte strepitose, panorami incomparabili o montagne uniche, né sono richiesti sforzi fisici estremi per compiere il pellegrinaggio. Unica è stata, però, l'opportunità di lavorare per due mesi alla conoscenza di me stesso e incomparabile è il calore umano delle persone che ho incontrato, persone libere dalla diffidenza e dalla paura del prossimo, in mezzo alle quali mi sono sentito anch'io veramente libero. E' l'essenziale che si trova in questo viaggio, non l'eccezionale.
Alla partenza si indossano una camicia bianca e un cappello di paglia, ci si carica sulle spalle uno zaino e ci si incammina appoggiandosi ad un bastone su cui c'è scritto “una strada, due persone”, in riferimento a Kōbō Daishi, invisibile compagno di ogni viandante; si diventa, così, uno henro, come se si salisse su un palcoscenico a recitare la propria parte. Ci si traveste per rendersi riconoscibili al prossimo, per comunicargli che abbiamo deciso di essere, per due mesi, un essere umano e nulla più; in cambio, si riceve ciò che spetta ad ogni essere umano: la solidarietà.
Se la vita ordinaria ha depositato sull'essenziale un'incrostazione che lo nasconde, per coglierlo ci vuole un'azione che la interrompa. Si deve “aggiungere” qualcosa al proprio abbigliamento e al proprio status per “togliere” quel sedimento e vedere cosa c'è “sotto”. Bisogna spostarsi, lasciare i posti conosciuti, per potersi ritrovare, per tornare da sé stessi, a quel centro dal quale ci si è allontanati proprio nella vita ordinaria e nei luoghi familiari.
Per gli abitanti dello Shikoku, camminare lungo lo henro michi, il sentiero dei pellegrini, non è un'impresa, ma un'azione normale che contribuisce a far girare la ruota del mondo nel verso giusto. Che qualcuno lo faccia offre ad altri l'occasione di compiere gesti di generosità; è un'azione che non sta all'inizio o alla fine di un processo, ma all'interno di una infinita catena di stimoli a fare cose diverse ma tutte giuste per far girare la ruota del mondo nel verso giusto. E per averne consapevolezza: il pellegrino che riceve il dono è lo specchio che rimanda al donatore il senso della sua azione, così come il donatore è specchio per lo henro.
E' un viaggio che porta a pensare che si possa trovare il paradiso anche dove c'è l'umanità, anzi, proprio perchè c'è l'umanità, in una terra dove non pare utopistica la scritta che si trova in molti luoghi sacri: “May peace prevail on Earth”.

Per informazioni sul Pellegrinaggio dello Shikoku:
Per vedere le mie fotografie:






Shikoku, perché andarci?





O-henro-san, il pellegrinaggio agli 88 templi buddhisti dell'isola di Shikoku, può essere paragonato ad un metallo particolarmente duttile che si presta ad ogni tipo di lavorazione. Ogni individuo o gruppo che lo compie, infatti, lo piega ai propri scopi; le motivazioni dei pellegrini sono eterogenee: c'è, per esempio, chi commemora i defunti e chi cerca una guarigione miracolosa, chi ringrazia le divinità per il successo professionale e chi occupa così un periodo di disoccupazione, chi perpetua una tradizione di famiglia e chi mette alla prova i propri limiti psicofisici. Fra i templi 87 e 88 è stato allestito un museo dedicato alla comunità dei pellegrini: se vi fermerete a visitarlo, vi verrà chiesto di compilare un questionario preparato dalla Waseda University di Tokyo; leggendo le domande, vi farete un'idea della diversità delle convinzioni, degli interessi e delle aspettative dei pellegrini.
Tale varietà è facilitata dall'atteggiamento di tolleranza del clero buddhista, degli abitanti dell'isola e dei pellegrini stessi; inoltre, non sono previsti requisiti formali che dimostrino una fede religiosa. Accade, quindi, che fra i pellegrini ci siano tanto membri delle principali sette buddhiste giapponesi, quanto ebrei, quaccheri, atei e persone di fede religiosa indeterminata.
Accanto a quella religiosa, c'è, poi, la totale tolleranza delle modalità di compimento del pellegrinaggio: a piedi o in autobus, in bicicletta o in motorino, tutto in una volta o una settimana all'anno, in senso orario o antiorario, dormendo in tenda o in hotel; per alcuni è un rigenerante stacco dalla vita lavorativa e per altri un rito di iniziazione prima dell'ingresso nell'età adulta, per qualcuno diventa una dipendenza o una scelta di vita (ho incontrato uomini che da anni percorrevano ininterrottamente lo Henro: uno aveva caricato tutti i suoi averi su un carretto che spingeva innanzi a sé, un altro li aveva quasi del tutto eliminati e gli erano sufficienti uno zainetto e un bastone di bambù).


Questa è la situazione attuale; ora facciamo un passo indietro: perché tutte queste persone si ritrovano proprio nello Shikoku? Per rispondere, bisogna risalire al periodo storico in cui il pellegrinaggio, da pratica ascetica riservata a pochi individui che era, divenne un fenomeno di massa; ciò avvenne alla fine del XVII secolo grazie a Yuben Shinnen (m. 1691). In un'epoca in cui la costruzione di infrastrutture quali strade e traghetti e l'accresciuto tenore di vita permettevano a numerosi giapponesi di inserire i viaggi nel loro nuovo stile di vita, Shinnen comprese che per incanalare questo gruppo sociale verso lo Shikoku era necessario “preparare il terreno”. Dopo aver compiuto più volte egli stesso il pellegrinaggio, nel 1687 pubblicò Shikoku Henro Michishirube, la prima guida in cui i viaggiatori potevano trovare informazioni relative a spostamenti e pernottamenti; in seguito, spronò il prete buddhista Jakuhon a scrivere Shikoku Henro Reijōki, una guida agli 88 templi che uscì nel 1689. Nel frattempo, Shinnen raccoglieva fondi per erigere centinaia di stele di pietra con funzione di segnavia lungo il cammino. Aveva capito che i nuovi pellegrini erano ben diversi dagli antichi asceti e avevano due esigenze: conoscere in anticipo le caratteristiche del percorso, per poterselo prefigurare e valutarne la fattibilità, e orientarsi durante il tragitto, combinando le informazioni contenute nella guida con le indicazioni stradali.


Infine, Shinnen colse un bisogno più profondo dei potenziali pellegrini, ovvero il desiderio di “entrare” in una narrazione epica che dia un senso superiore alle esperienze che essi stanno per vivere. Scrisse, perciò, Shikoku Henro Kudokuki, pubblicato nel 1690, nel quale raccolse ed espose i miracoli attribuiti al santo Kōbō Daishi (774-935). Questi aveva effettivamente passato alcuni anni nello Shikoku, fra il 797 e l'804, dedicandosi a pratiche ascetiche, e nell'823 aveva diretto i lavori di costruzione del bacino artificiale di Mannō, nel nord-est dell'isola, ma aveva trascorso gran parte della sua vita fra Nara e Kyoto; nonostante ciò, con il passare dei secoli si era formato un corpo di leggende nelle quali egli figurava come iniziatore del pellegrinaggio, fondatore della maggior parte degli 88 templi, scultore di statue lignee delle divinità, guaritore e rabdomante. Shinnen corroborò la credenza che il santo non fosse veramente morto, ma fosse entrato in uno stato di meditazione che gli permetteva di manifestarsi per assistere i pellegrini lungo il cammino e, talvolta, di assumere le sembianze di uno di essi per meglio aiutare gli altri o per metterli alla prova. Tale convinzione andava a stimolare la pratica dell'osettai, i doni che gli abitanti dello Shikoku elargiscono ai pellegrini con l'intenzione di fare cosa gradita al santo, che li protegge e che potrebbe addirittura essere uno di essi. Grazie al Kudokuki il pellegrinaggio venne solidamente incardinato sulla figura di Kōbō Daishi, ne venne esaltata la miracolosa efficacia e vennero fissati dei codici di comportamento virtuoso, attraverso la descrizione di episodi in cui il santo aveva premiato o punito le persone incontrate, a seconda della loro condotta. Ai pellegrini venne proposta un'identificazione con Kōbō Daishi, negli atteggiamenti e anche nell'abbigliamento, che portava con sé l'innalzamento dello status dello henro, in tal modo rivestito della sua santità.
Shinnen riuscì, così, a creare un ambiente accogliente e denso di significato per i potenziali pellegrini; inoltre, fornì loro una motivazione socialmente accettabile per mettersi in viaggio, un elemento non trascurabile nella società giapponese che, anche oggi, non vede con favore l'interruzione dell'attività lavorativa per motivi di semplice svago. Ovviamente, le guide di Shinnen non furono gli unici canali di diffusione del pellegrinaggio: allora come oggi, il passaparola fu determinante; inoltre, la sua crescente popolarità lo fece diventare oggetto di spettacoli teatrali kabuki che, a loro volta, contribuirono ad accrescerne la fama.
Shinnen stesso divenne oggetto di venerazione e un piccolo edificio situato fra i templi 37 e 38, la cui costruzione gli è attribuita, divenne (e lo è tuttora) una meta dei pellegrini che gli riconoscono il ruolo di padre del pellegrinaggio. Sotto questo aspetto, viene accostato a Kōbō Daishi e a Gyōki Bosatsu (668-749), al quale si attribuisce la fondazione di 30 degli 88 templi. La popolarità di questi santi non è dovuta soltanto alle guarigioni miracolose, ma anche alle innumerevoli opere di pubblica utilità quali ponti, dighe e strade che avrebbero realizzato; accanto alle capacità ingegneristiche, poi, vengono loro riconosciute anche raffinate doti artistiche di scultori, pittori e calligrafi, realizzando così una sintesi nella quale i giapponesi vedono l'incarnazione delle qualità migliori del loro popolo.

Il fedele vede nei santi e nelle divinità delle persone che necessariamente retribuiranno i suoi atti virtuosi, seppur secondo i loro imperscrutabili disegni in quanto a tempi e modalità; io, che non posso credere a una correlazione del genere, ho comunque visto lo spirito di Kōbō Daishi agire nella realtà, in un modo che potrei definire probabilistico. La tradizione religiosa che si rifà al santo (e, più in generale, quella buddhista) propone un ideale di condotta che viene condiviso e preso a modello dalla maggioranza degli abitanti dello Shikoku e dalla quasi totalità dei pellegrini; pertanto, se mi trovo sull'isola, sono vestito da henro e vado a piedi, accade frequentemente che le persone che incontro siano gentili e generose con me. Le mie reazioni appropriate, come quelle degli altri pellegrini, rafforzano la generale convinzione che i valori ispiratori siano giusti; essi diventano, quindi, la regola della vita quotidiana, in un circolo virtuoso che si perpetua nei secoli. Non posso avere la certezza che le mie buone azioni verranno ricompensate, ma la probabilità che diano vita a buone relazioni con altri esseri umani è assai elevata.






Otherworldly Shikoku





Per qualcuno il viaggio è la ricerca di un mondo più congeniale, che abbia caratteristiche opposte a quello in cui si vive: è questo il caso di numerosi pellegrini che mi è capitato di incontrare.
C'erano, innanzitutto, coloro che volevano assaporare il Giappone “di una volta”; uno henro sessantenne con cui pranzai a Uwa, per esempio, si commosse perché il ristorante in cui ci trovavamo gli ricordava la cucina di sua madre. Questi pellegrini esaltano i paesaggi rurali attraversati e li contrappongono agli ambienti cittadini da cui provengono, e di cui, invece, parlano con un certo fastidio. É interessante notare che il pellegrinaggio attraversa anche quattro città di circa trecentomila abitanti, in tutto e per tutto simili alle maggiori città giapponesi, e coincide, per lunghi tratti, con strade statali, lungo le quali l'unico comfort del camminatore è il guardrail che lo separa dal traffico pesante; tuttavia, alcuni pellegrini tralasciano volentieri di descrivere questi luoghi nei loro racconti, che, in tal modo, finiscono con il ricalcare l'immagine arcadica che viene diffusa dall'ente di promozione turistica dello Shikoku, dall'associazione che raggruppa gli 88 templi e dai documentari della televisione nazionale NHK. É su questa immagine che insistono le compagnie di autobus che gestiscono i viaggi organizzati di cui usufruisce la maggior parte degli henro: un mezzo moderno viene proposto come il tramite per accedere ad un mondo caratterizzato da ritmi e usanze più “naturali” e “tradizionali”. Non stupisce che, poi, dell'isola vengano prevalentemente ricordati quegli elementi che corrispondono al paesaggio atteso, immaginato prima del viaggio sulla base delle informazioni ricevute. Va anche detto che i fornitori di servizi turistici e il clero stesso si sforzano di far assomigliare i loro edifici al paesaggio atteso (il quale, in fondo, è plasmato dai mezzi di comunicazione e dai tour operator).
La mitizzazione di una forma politico-sociale del passato (in questo caso il furusato, il “vecchio villaggio natio”) e la sua identificazione con la vita attuale delle comunità rurali soddisfano, quindi, un bisogno di evasione dal mondo urbano contemporaneo, ma comportano inevitabilmente una depurazione artificiosa, cioè il nascondimento degli aspetti sgradevoli di quella vita; non è un fenomeno soltanto giapponese e non soltanto di oggi, come dimostra l'analisi dell'idealizzazione dell'impero austro-ungarico magistralmente condotta da Claudio Magris nel suo Il mito absburgico. Ciò che è interessante, nel caso dello Shikoku Henro, è che il processo di mitizzazione dello stesso pellegrinaggio e del paesaggio che lo ospita è continuo, perdura da secoli e vi partecipano molteplici soggetti, talvolta anche in antitesi fra loro: asceti e monaci, abitanti dell'isola, autorità religiose e politiche, scrittori, giornalisti, operatori turistici, camminatori solitari, gruppi organizzati.
Infatti, se è vero che il pellegrinaggio dello Shikoku presenta aspetti di pianificazione e di controllo sociale che rimandano ad una più ampia organizzazione gerarchica, esso è allo stesso tempo caratterizzato da elementi di spontaneismo ed egualitarismo. Trattandosi di un itinerario circolare, si può iniziare dove si vuole; non sono richieste credenziali nè lasciapassare (come, invece, avveniva in epoca Tokugawa); il campeggio è libero e inesistente è il pericolo di essere derubati o molestati; i momenti di condivisione sono caratterizzati dal rispetto delle diverse motivazioni e visioni individuali (nessuno mi ha chiesto se sono buddhista); i ritmi, le fatiche e i riti della camminata accomunano tutti, indipendentemente dalla provenienza sociale, e spesso si formano gruppi che ricordano gli affreschi medievali delle danze macabre, dove ricchi, potenti, poveri ed emarginati sono sullo stesso piano.
La morte, la grande livellatrice, è il tema centrale del pellegrinaggio; gli indumenti che si indossano (non obbligatoriamente) distinguono il pellegrino dal resto dell'umanità, proiettandolo in uno stato simbolico di “morto per il mondo” e pronto per la morte; si sottolinea, così, che la partenza implica rinuncia e separazione e che la rinascita a cui si aspira presuppone una morte, seppur metaforica. Il poema che si trova sul sugegasa, il cappello di paglia, riguarda la transitorietà della vita ed è lo stesso che si incide sulle bare; lo hakui è un abito bianco, colore associato alla morte, che si lega sul lato destro, come la veste riservata ai defunti; fino agli anni Trenta del Novecento accadeva frequentemente che un certo numero di pellegrini, spesso malati in cerca di guarigione, morissero e venissero sepolti lungo il sentiero: il bastone, chiamato kongōzue, oltre a rappresentare Kōbō Daishi che è sempre a fianco del pellegrino, fungeva da lapide e il nōkyōchō (il quaderno sul quale si raccolgno i timbri dei templi) da passaporto per l'oltretomba.
L'immagine dello Shikoku come luogo liminare rispetto all'aldilà è rafforzata da altre sue caratteristiche: la sua insularità, la separazione fisica, economica e politica dai centri principali del Giappone, la prevalenza di zone montuose e scarsamente popolate che in passato furono scelte come luoghi di esilio, lo stesso nome: Shikoku significa “quattro province”, ma shi può essere scritto con un carattere che vuol dire “morte” e, in tal modo, l'isola viene a chiamarsi “paese della morte”. In Giappone, le montagne sono tradizionalmente associate con il trascendente e con la morte, tanto che alcune, chiamate reizan, sono considerate luoghi di riunione temporanea degli spiriti dei dipartiti; dieci degli 88 templi sorgono in cima a reizan.
I promontori della costa meridionale erano teatro, in epoca medievale, di suicidi rituali buddhisti, che consistevano nell'imbarcarsi con lo scopo di naufragare e annegare, in modo da rinascere nella Terra Pura, il monte Fudaraku abitato dal bodhisattva Kannon. L'idea che lo Shikoku sia il luogo ideale per lasciarsi alle spalle la vita presente è, come si è visto, diffusa anche fra i pellegrini contemporanei, e alcuni la intendono nel senso del suicidio; nel 1949, Tamiya Torahiko pubblicò il romanzo Ashizuri Misaki, in cui il giovane protagonista si toglie la vita gettandosi dall'omonimo promontorio, così come, nella realtà, altri hanno fatto prima e (forse per imitazione) dopo l'uscita del libro.
C'è chi intende il pellegrinaggio come una lunga commemorazione dei propri cari defunti; c'è chi, viaggiando in bus o in auto, prega per loro in ogni tempio e chi, viaggiando a piedi, considera l'atto del camminare una forma di preghiera (in alcuni casi portando con sé le ceneri della persona deceduta). Posso confermare per esperienza personale che il ricordo delle persone amate morte si intensifica durante le lunghe camminate solitarie, in cui il tempo del pensiero si dilata e si acuiscono la lucidità e la concentrazione.






Ambivalente Shikoku




Il pellegrinaggio dello Shikoku ha sempre attratto chi si trova in una condizione di marginalità; i giapponesi hanno conosciuto il benessere economico di massa soltanto dopo la seconda guerra mondiale: prima di allora la povertà non era un fenomeno raro. Alcuni poveri giungevano nell'isola in cerca di elemosine, altri si fingevano malati, qualcuno vendeva false medicine miracolose. La presenza di ladri travestiti da pellegrini spingeva gli autori delle guide di viaggio a mettere in guardia gli henro e le autorità a restringere la libertà di movimento. Sotto i sugegasa e gli hakui si potevano celare ricercati e debitori morosi. Fra i malati autentici, numerosi erano i lebbrosi, emarginati dalle comunità di origine e, quindi, alla ricerca di tolleranza.
L'immagine dei pellegrini, pertanto, era ambivalente. Ian Reader, professore di Studi Giapponesi all'Università di Manchester e autore del saggio Making Pilgrimages. Meaning and Practice in Shikoku, ha coniato l'espressione sacred thieves and contagious saints per indicare i gruppi più marginali fra gli henro; si faceva loro l'elemosina, dovuta per la santità derivante dall'associazione con Kōbō Daishi, ma li si teneva a distanza perché si pensava potessero diffondere malattie o rubare. Le madri dicevano ai bambini: «Stai bravo, se no viene lo henro e ti porta via!»
Poi venne il boom economico. Delinquenza e lebbra scomparvero, ma non così il dubbio che alcuni dei pellegrini non fossero henro genuini; oggi, però, oggetto di perplessità sono i più benestanti, quelli che affrontano l'impresa in autobus e dormono in albergo. Senza disagi non c'è merito, sostengono i loro detrattori; non c'è niente di peggio di un viaggio organizzato, con i suoi ritmi frenetici e per di più in bus, ribatto io: soffrono ben più di noi liberi camminatori!
Comuni a tutti gli henro sono le ambivalenze interiori: i duplici stati d'animo che si sperimentano durante e dopo il pellegrinaggio. Ci sono, per cominciare, le giornate in cui si provano il massimo sconforto e il massimo entusiasmo nel giro di poche ore. Fatiche e difficoltà sono intrinseche al pellegrinaggio: grazie ad esse ci si sente via via purificati dalle passioni negative (che nel buddhismo si chiamano bonnō e sono 88, come i templi da visitare); sono loro, per contrasto, a far risaltare i momenti migliori. Una mattina, al riparo di un kyūkeisho, fui svegliato, per il terzo giorno consecutivo, dalla pioggia battente. Attesi tre ore che la pioggia diminuisse, misi i piedi nelle scarpe ancora bagnate e mi incamminai; l'umore era cattivo: incolpavo le panche troppo strette su cui avevo trascorso le ultime due notti, le scarpe che non avevano retto al diluvio e il conseguente timore delle bolle ai piedi, il paesaggio industrializzato, l'incertezza sul prossimo pernottamento. Fino all'una non riuscii a procurarmi una bevanda calda né a scambiare qualche parola; poi, alla prima vending machine, mi fermai a bere un caffè e una signora in motorino accostò per regalarmi due panini. Pochi minuti dopo, mi imbattei in un garage trasformato in biblioteca a disposizione dei pellegrini: l'ignoto benefattore aveva anche provveduto a dotarlo di tavolo e poltroncine.
Poco più avanti, incontrai uno henro anziano con lo hakui ingrigito e una canna di bambù come kongōzue; camminava in senso antiorario, nella speranza di incrociare più facilmente Kōbō Daishi sotto le spoglie di un altro pellegrino. Mi sorrise, sdentato, e si fermò per estrarre dal suo minuscolo zainetto un osamefuda di color argento (segno che aveva compiuto più di 25 volte il pellegrinaggio) di cui mi fece dono. Passata un'altra ora, trovai lungo la strada uno zenkonyadō , nel quale uno henro si riparava dalla pioggia e passava il tempo disegnando; bevemmo tè e mangiammo biscotti di sesamo. Più tardi sbagliai strada e mi ritrovai all'ingresso di un campo da golf: disorientato, mi avvicinai ad un'automobile ferma e chiesi indicazioni al guidatore; questi mi fece salire, mi riportò al punto in cui, mezz'ora prima, avevo girato dalla parte sbagliata e mi regalò una lattina di caffè. Ripresi il cammino con la serenità di chi ha completa fiducia nell'umanità che lo circonda. Entrai nella cittadina di Doi che abbuiava e andai a montare la tenda sotto il kyūkeisho di fronte al tempio Enmeiji; ero già al riparo quando scoppiò un violento temporale. Mi infilai nell'unica trattoria della via e trovai più di quanto sperassi: un posto piccolo e caldo, gestito da una signora che mi cucinò uno squisito piatto di yakisoba con tempura; c'erano tre commensali e uno di essi mi offrì una birra e iniziò a conversare in inglese. Non so come, nel quartiere si sparse la voce che era arrivato uno straniero e, uno dopo l'altro, quattro anziani vennero a conoscermi. Sentii con certezza di essere solo un essere umano qualunque che patisce la pioggia, la fame e la solitudine, e mi accorsi che nelle ultime ore avevo trovato l'essenziale: riparo, calore fisico e umano. Quella che era cominciata in modo da essere classificata come la peggiore giornata del viaggio, si concluse come una delle migliori.
Contrastanti, poi, sono gli stati d'animo che provai il giorno in cui camminavo verso Ōkuboji, l'ottantottesimo e ultimo tempio del pellegrinaggio: la conclusione era imminente e io ero incredulo, eccitato, malinconico, appannato, soddisfatto; le mie gambe ora acceleravano ora rallentavano, riflettendo l'orgoglio per quanto avevo compiuto e il disorientamento al pensiero di non avere più un sentiero da percorrere.
Ambivalente è anche la situazione che, come molti altri pellegrini, ho vissuto in seguito, una volta lasciato lo Shikoku: nostalgia dei "giorni felici" e, contemporaneamente, desiderio di mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti e ripartire da zero, come si faceva ogni giorno sulla strada. Ci sono i momenti di entusiasmo per l'inizio di una nuova fase della vita e quelli di difficoltà, particolarmente acuti quando ho l'impressione che il microcosmo in cui sono tornato si dimostri sempre uguale a sé stesso e non voglia lasciarsi modificare. Capisco, allora, ciò che mi hanno raccontato alcuni henro: la difficoltà di reinserimento provoca il desiderio di tornare nello Shikoku. Mi ritorna in mente Chatwin, che registrava in sé stesso due contrastanti impulsi: l'irrequietezza che lo spingeva ad esplorare il mondo e il bisogno di tornare ad una base; in questo caso, lo Henro pare conciliare le due esigenze: la strada diventa la “casa”. Un altro esempio di duplicità.
La seconda accezione della parola "ambivalenza" riportata dal dizionario Devoto-Oli è la seguente: «condizione psicopatica di chi contemporaneamente prova due sentimenti o riceve due impulsi antitetici». Ora, il pellegrinaggio rafforza proprio quella forma di saggezza che consiste nell'accettare la contraddittorietà della vita quotidiana. Quindi, il folle e il saggio sono la stessa persona? Ho notato che, oltre a chi mi ha dato del pazzo e chi del coraggioso, ci sono stati alcuni che mi hanno definito folle o saggio a seconda degli episodi che raccontavo. Mi pare, perciò, che la follia e la saggezza non siano caratteristiche di chi parla di ciò che ha vissuto, ma parole usate da chi ascolta e ha bisogno di racchiudere in categorie ciò che sente.