giovedì 30 settembre 2010

Vostok, parte prima


Josef Binder e Signora

La stazione ferroviaria di Venezia Mestre è stata la mia porta d’Oriente. A essere precisi, sono partito da Torino Porta Nuova, ma quella è una stazione priva di sapore internazionale, essendo Parigi l’unica destinazione oltre confine che compare sui tabelloni delle partenze, mentre a Mestre gli schermi annunciano, fra gli altri, treni per Budapest, Bucarest, Wien. La sola vista di carrozze delle compagnie ferroviarie ungheresi e romene mi ha provocato una scarica di quell’ormone, di cui non conosco il nome e non posso provare l’esistenza, che il nostro organismo secerne in occasione dell’inizio di un viaggio importante.
La seconda porta l’ho varcata in Austria, nel momento in cui il treno Linz-Sommerau ha oltrepassato il Danubio: da quando, “ragazzo di mappe appassionato”, vidi per la prima volta una cartina dell’impero di Augusto, associo il nome di questo fiume alla nozione di confine, oltre il quale si apre un nuovo mondo da esplorare.
Sarà un viaggio in cui attraverserò altri confini, lungo i quali si sono fronteggiati, e spesso combattuti, impero romano d’occidente e d’oriente, austro-ungarici e ottomani, tedeschi e slavi, cattolici e ortodossi, NATO e Patto di Varsavia. Cercherò di capire quali eredità hanno lasciato quelle frontiere negli europei che hanno tenuti separati e che oggi si stanno riunendo in un pacifico esperimento politico a cui la storia non aveva ancora assistito. Avrò bisogno dell’aiuto di chi l’Est lo abita nel presente e di chi l’ha abitato nel passato; non potrò fare a meno delle loro storie né della loro Storia. In un viaggio tutti gli incontri hanno lo stesso valore e tutti sono indispensabili: persone comuni o celebri, uomini in carne e ossa o figure che sopravvivono nei ricordi, nei libri, sulle lapidi.
Ceske Budejovice, Repubblica Céca, è la prima tappa di questo viaggio. L’agenzia viaggi CKM, di fronte alla stazione ferroviaria, mi ha fornito l'indirizzo di un privat, un affittacamere. La casa risale all’inizio del Novecento, come tutto il quartiere adiacente alla stazione a cui appartiene. Tre scalini con un bidone dell’immondizia in metallo davanti alla porta d’ingresso, oltrepassata la quale ci si trova in uno spazio su cui si affacciano la porta della mia camera e quella del bagno, due rampe di scale che conducono rispettivamente al piano superiore e al giardino retrostante, e la porta dell’appartamento dei signori Binder, preceduta, lungo la parete, da un lavandino, una scarpiera e una mensola con cesti di patate e verdure colte nell’orto.
La signora Binder parla soltanto céco, il marito Josef russo e tedesco, ma non inglese. Io non conosco né il russo né il tedesco, soltanto l’inglese. La contrattazione si è ridotta all’accettazione, da parte mia, di una cifra scritta, da loro, su un foglietto. I padroni di casa hanno più di sessant’anni e, con le loro conoscenze linguistiche, riassumono la storia del loro Paese dagli anni Trenta al 1989.
Nella stanza che mi assegnano c’è tutto: una panchetta e una spazzola per pulirsi le scarpe, un angolo cottura con fornello a gas, pentola, bollitore, posate, bustine di tè, zollette di zucchero, sale, tazze, apribottiglie, un tagliere e un coltello da salame, scatole di fiammiferi, bicchieri, piatti, carta stagnola, spatola di legno, un lavandino con miniboiler, spugna, sapone, detersivo, specchio, una pianta in vaso, un asciugamano, un appendiabiti sul quale è infilzato un rocchetto di filo, un tavolino e due poltroncine, un letto con un enorme cuscino e un piumone, un altro tavolino con una radiosveglia sintonizzata su una stazione rock. A una parete è appesa una mensola su cui ci sono due origami, un sasso e una piantina che cresce in un bicchiere d’acqua. La signora Binder ha decisamente il gusto per le piccole attenzioni.
Nel quotidiano italiano che mi è rimasto nello zaino leggo il coccodrillo di Gina Lagorio e ciò che più mi colpisce è il riferimento al libro che lei ha scritto dopo la morte del marito per esprimere ciò che non era riuscita a dirgli in vita. Lui era morto quando, quarantenni, presi forse dalle incombenze quotidiane, rimandavano quei discorsi che, incautamente, credevano di poter fare da vecchi. Ho fatto lo stesso ieri mattina, a Torino, con una donna con cui era bello passeggiare senza dire nulla, semplicemente godendo della sua bellezza e della sua presenza. È anche per questo motivo che si rinviano le parole, per non interrompere momenti di serenità.

mercoledì 29 settembre 2010

Vostok, parte seconda



Le malelingue

La madre di Egon Schiele era nata a Cesky Krumlov, cittadina che ha trasformato uno dei palazzi del suo centro storico nell’Egon Schiele Art Centrum. Il padre, lo zio e il nonno del pittore erano ferrovieri, pionieri delle costruzioni e capistazione, presso le ferrovie lavorava la sorella maggiore Melanie e ingegnere ferroviario era pure il tutore che fu nominato dopo la prematura morte del padre. Inevitabilmente, anche Egon venne avviato a studi tecnici, prima che alcuni insegnanti lo incoraggiassero a optare per le arti. Ormai più che ventenne, comunque, sbalordiva i suoi ospiti riproducendo alla perfezione «il sibilo del vapore, il fischio dei segnali, lo sferragliare delle ruote, i sussulti delle rotaie, lo stridere degli assi e delle molle, gli sbuffi della partenza e lo stridere metallico dell’acciaio dei freni», come scrive in una lettera del 1913 il critico d’arte Arthur Roessler.
Nel 1910, a vent’anni, si stabilì a Cesky Krumlov e prese in affitto un atelier con il suo amico Erwin Osen. Pochi mesi prima aveva scritto al suo futuro cognato Anton Peschka: «Vorrei andarmene da Vienna, subito. Com’è brutto qui. La gente è invidiosa e infida. I colleghi di una volta mi guardano con occhi falsi. A Vienna c’è ombra, la città è nera: tutto è malato. Desidero essere solo. Voglio andare nella foresta boema. Maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre. Voglio vedere cose nuove e le voglio studiare; voglio assaggiare l’acqua cupa, voglio vedere degli alberi incrinati, aria selvaggia, voglio osservare con stupore siepi coperte di muffa, voglio vedere come tutto questo vive; voglio vedere giovani boschetti di betulle e voglio sentire le foglie tremolanti; voglio vedere luce, sole e godere della rugiada delle valli notturne umide e azzurrognole; vorrei cogliere il guizzo dei pesci dorati, vedere formarsi nuvole bianche, vorrei parlare ai fiori.»
Durante quel soggiorno Schiele disegnò soprattutto sé stesso e l’amico Erwin, entrambi generalmente nudi, ma anche Krumlov posò per i suoi quadri. Riprese il tema della città morta, sfruttato da simbolisti e decadentisti alla fine del secolo precedente, e lo rielaborò per esprimere un proprio stato d’animo, come nell’opera dall’eloquente titolo Dolore universale, realizzata appunto nel 1910 e in seguito distrutta. Non dipingeva città nere e malate per registrare compiaciuto il loro disfacimento e offrirlo all’impietoso confronto con la loro passata opulenza; piuttosto, esperto nell’arte dell’autoritratto, si confermava sapiente utilizzatore di ogni tipo di specchio, servendosi degli edifici per riflettere la propria tristezza. Negli anni seguenti le case di Krumlov comparvero in vari quadri intitolati Città morta e, esplicitamente, in Paesaggio di Krumau del 1916.
Nel 1911 Schiele affittò nuovamente una casa a Krumlov e iniziò a convivere con Wally Neuzil, sua modella diciassettenne. Ritraeva frequentemente adolescenti nude o semivestite e questa abitudine suscitò le lamentele dei concittadini, che già disapprovavano la convivenza con Wally. Le scene di autoerotismo, ritratte per esempio nel Nudo femminile sdraiato per metà del 1910, erano uno dei suoi temi preferiti. La coppia fu costretta ad andarsene da Cesky Krumlov nello stesso 1911. Si stabilirono a Neulengbach, vicino a Vienna, ma non trovarono pace. Schiele, a causa della convivenza con la giovane, venne accusato di aver traviato, sedotto e rapito una minorenne, e quindi arrestato, incarcerato per tre settimane e processato. Al termine della vicenda giudiziaria le accuse furono ritirate, ma il pittore venne comunque condannato a tre giorni di reclusione per l’immoralità dei suoi disegni e per aver permesso ai compagni di scuola delle sue modelle di entrare nell’atelier. Erano stati proprio quei ragazzini a raccontare in giro quali fossero i soggetti dipinti da Schiele e a far scattare, di conseguenza, la denuncia.
Le carrozze del treno che mi riporta a Ceske Budejovice non sono recenti, ma molto pulite e si viaggia in assoluta puntualità, nessuno dei passeggeri alza la voce e nessuno usa il telefono cellulare. Molti, sia ragazzi che adulti, viaggiano con bicicletta, grandi zaini e attrezzatura da campeggio verso le località di montagna pubblicizzate nelle carrozze e nelle sale d’aspetto. I passaggi a livello non hanno sbarre, soltanto un semaforo, e gli automobilisti non passano con il rosso, neanche se il treno si è fermato qualche decina di metri prima dell’incrocio per far salire o scendere qualcuno.
Si viaggia fra campi di cereali e foreste di conifere a cui si sovrappone spesso un cielo plumbeo: la bandiera della Repubblica Céca dovrebbe essere a strisce orizzontali, gialla, verde e grigia. Al posto dello stemma che talvolta campeggia al centro delle bandiere, ci potrebbe stare la sagoma di un villaggio, con l’affusolato campanile che spesso, all’orizzonte, come una spilla aggancia la fascia gialla alla grigia e comprime la verde.
Nella lettera a Peschka, Schiele aveva aggiunto: «Vorrei correre lontano senza fermarmi su monti rotondi coperti di prati, attraverso ampie pianure; vorrei baciare la terra ed odorare i morbidi e caldi fiori di muschio. Allora io stesso potrò creare delle forme così belle: campi colorati…»

martedì 28 settembre 2010

Vostok, parte terza



Il vigore della natura

«Il disegno è una chiave per accedere alla conoscenza e alla padronanza dei principi fondamentali della comunicazione», diceva Friedl Dicker, che fu docente del Bauhaus e una degli artisti e scienziati ebrei che nel campo di concentramento nazista di Terezin cercarono di garantire ai bambini deportati un’istruzione e, con ciò, isolarli dalla barbarie. Quanto rimane dei loro disegni è esposto nella sinagoga Pinkas di Praga e, inevitabilmente, ci fa pensare a ciò che ci siamo persi con la loro morte.
Il Municipio ospita una mostra sulla Secessione viennese, sottolineando la partecipazione degli artisti cechi a questo movimento artistico. Nel 1899 Felician von Myrbach, il direttore della Scuola di Arti Applicate di Vienna, incluse alcuni giovani artisti, fra cui Koloman Moser, nello staff dell’istituto e uno dei cardini del corso di studi divenne lo studio delle strutture organiche, in particolare delle piante, e la loro stilizzazione. Negli studi di composizione risultò, quindi, indispensabile la capacità di ricondurre la rappresentazione delle piante e degli animali alle loro forme fondamentali. Le conoscenze e le abilità di maestri quali Moser e Josef Hoffmann fluirono, attraverso gli allievi che essi diplomarono, nelle scuole di arti applicate delle terre ceche e trovarono una prima realizzazione industriale attraverso la ditta Prag-Rudniker. Gli stretti contatti con il mondo produttivo e gli scambi culturali fra i musei e le scuole di specializzazione disseminati nei territori dell’Impero erano i punti di forza del sistema scolastico-artistico austro-ungarico. Nel 1903, ispirandosi al movimento inglese Arts and Crafts, Hoffmann (nato a Pirnitz, l’attuale Brtnice in Moravia, e cresciuto a Brno), Moser e l’industriale Fritz Waerndorfer costituirono il Wiener Werkstätte (WW), con l’obiettivo di realizzare l’opera d’arte “totale”. Ne scaturirono oggetti dalle linee austere e minimaliste, fra i quali mobili, gioielli, vetri, tessuti e ceramiche; filiali furono aperte a Karlovy Vary e Mariánské Lázně (oggi in Repubblica Céca), Zurigo e New York. Fra i giovani talenti promossi da Hoffmann ci fu Schiele, autore di alcune delle celebri cartoline del WW.
Le vicende dipanate dalla mostra si interrompono con la nascita della Cecoslovacchia indipendente, in seguito alla quale i legami con Vienna vennero recisi piuttosto che rafforzati.
Prima della Grande Guerra il Wiener Werkstätte fece in tempo a influenzare un gruppo di artisti praghesi, fra i quali Gočar e Janák, che crearono un movimento artistico che si manifestò omogeneamente nelle arti figurative e in quelle applicate, nell’architettura e nella grafica. Una collezione delle loro opere, riunite sotto il titolo di Cubismo Céco, si può vedere alla Casa della Madonna Nera, un edificio, progettato proprio da Josef Gočar nel 1911, che proclama la centralità delle forme poligonali cristalline e l’esclusione dell’angolo retto, il che è piuttosto ironico per dei cubisti. Con loro buona pace, al primo piano del palazzo, il Grand Cafè Orient serve una torta di forma quadrata, una specie di ciambella il cui buco, pure, è quadrato.
Nel vecchio cimitero ebraico decine di migliaia di persone sono state sepolte in un quadrato di terra di sì e no trenta metri di lato, strato di terra su strato di terra, sopraelevando man mano sulla nuova superficie le lapidi. Rispetto al camminamento che la circonda, perciò, l’area delle sepolture ha assunto la forma di un panettone; fra le lapidi ammassate crescono alberi rigogliosi, a esse si aggrappano lumachine e rampicanti e non mancano i frutti di bosco. I periodici spostamenti e gli agenti atmosferici hanno reso le lapidi informi, simili alle pietre che si possono trovare in montagna in una foresta di alberi secolari, e hanno cancellato i nomi che vi erano stati scolpiti, vanificando le accademiche distinzioni fra umano e naturale o, peggio, fra umano e umano. Complice la mia ignoranza dei caratteri ebraici ancora leggibili, il cimitero mi appare come l’ápeiron teorizzato da Anassimandro, in cui, dopo la morte, si supera finalmente la nostra individualità, la quale, facendoci rimpiangere l’unione originaria con il Tutto, tanto ci fa soffrire di solitudine nel corso della vita.
Sono permeate del vigore della natura le forme create dal campione dell’Art Nouveau céca, Alfons Mucha, la cui fama è legata ai manifesti degli spettacoli teatrali di Sarah Bernardt, che egli disegnò, a Parigi, fra il 1894 e il 1900. In quello della Medea fa indossare un elaborato bracciale a forma di serpente all’attrice, la quale ne rimase a tal punto incantata da ordinarne uno identico a George Fouqet, il futuro datore di lavoro di Mucha. Nell’affiche per la tipografia Cassan Fils, invece, un bordo costituito da una miriade di occhi rappresenta i lettori.
A diciannove anni Mucha viveva a Vienna, era pittore di scene teatrali e venne notato dal conte Khuen-Belassi, che ne sponsorizzò gli studi a Monaco di Baviera. Negli anni Novanta incontrava nel suo studio parigino scrittori, musicisti e pittori, fra i quali Gauguin, che si fece fotografare mentre suonava il piano senza indossare i pantaloni; nello stesso studio faceva proiettare i primi film dei fratelli Lumière. Eppure, due decenni più tardi, questo raffinato cosmopolita si tramutò in un ardente nazionalista. Come è possibile? I nazionalismi ottocenteschi e novecenteschi hanno causato immani sciagure e sono stati secondi solo alle religioni come fonte di odio e di guerre. Non è forse preferibile vivere in uno spazio politico che sia il più ampio possibile e che comprenda il maggior numero di popoli e di città, in modo da moltiplicare le opportunità di studio, lavoro e crescita dei suoi cittadini, piuttosto che in Stati nazionali che costringono i propri abitanti in ambienti culturali miseri e soffocanti?

lunedì 27 settembre 2010

Vostok, parte quarta


You cannot sedate all the things you hate


Sono a Łódź per rivedere un amico, Jarrek, che conobbi nel 2000 in India. Invitati a partecipare a un convegno di filosofia, avevamo preso, senza saperlo, lo stesso aereo da Amsterdam a Calcutta. Atterrati alle tre del mattino, avremmo dovuto trovare ad attenderci un’auto del Ramakrishna Mission Institute of Culture. All’uscita dell’aeroporto, però, non c’era traccia dei nostri ospiti indiani e fu così che ci conoscemmo, girovagando in un parcheggio alla ricerca della loro vettura. Non trovandola, prendemmo un taxi insieme per raggiungere Golpark e attraversammo una città già in pieno fermento per l’arrivo delle merci che riforniscono i mercati e i negozi.
Cresciuto agnostico, negli anni Novanta Jarrek ha studiato in Svezia dove è diventato luterano. Oggi in Polonia il suo punto di vista, protestante e liberale, è eccentrico e, pertanto, massimamente prezioso. Ai lavori del convegno alternammo lunghe conversazioni e passeggiate; un pomeriggio il monsone ci colse nel centro della città, che venne rapidamente allagata. Le strade scomparvero sotto mezzo metro d'acqua, ma trovammo un audace tassista che in serata ci riportò in Istituto. Lì, con le scarpe in mano e i pantaloni rimboccati sopra il ginocchio, capii perché gli edifici di Calcutta hanno il portone d’ingresso rialzato di alcuni gradini rispetto al piano stradale.
Questa volta la sistemazione è molto più semplice: Jarrek viene ad aspettarmi alla stazione e mi conduce a casa sua, dove ci aspettano Magda, sua moglie, e Szymon, il loro bambino. Il loro appartamento si trova in uno dei parallelepipedi alti una decina di piani che, a migliaia, contornano le città dell’impero sovietico. Nella Repubblica Céca non mi avevano impressionato negativamente, perché erano generalmente tinteggiati con colori gradevoli e circondati da aiuole curate e alberi d’alto fusto. In Polonia, invece, l’incuria mette a nudo la scarsa qualità dei materiali da costruzione. I miei amici sono entrambi docenti universitari ma i prezzi delle case sono alti anche per loro che, quindi, hanno ripiegato su un quartiere periferico. Gli spazi comuni come il vano scale non sono di proprietà dei condomini e sono lasciati nel totale abbandono; tutta la cura dei proprietari per le proprie abitazioni si manifesta dietro le pesanti porte degli appartamenti.
Con Magda e Jarrek passo tre giorni a parlare: anche se ci siamo scritti spesso, sono cinque anni che non ci incontriamo e le questioni da discutere con la massima urgenza ci sembrano infinite. La sera stiamo a tavola fino a tardi, bevendo vodka żubrówka (quella aromatizzata con l’erba preferita dal bisonte europeo che vive nel parco nazionale di Białowieża) e krupnik, un liquore al miele, ma l’euforia è dovuta, soprattutto, all’intesa che ritroviamo confrontando la fallita defascistizzazione delle stanze del potere nell’Italia del dopoguerra con la mancata desovietizzazione nella Polonia contemporanea, il clientelarismo economico e politico, lo scarso senso civico e il disinteresse per il bene pubblico nei due Paesi. Mi raccontano dei timori che la Russia ancora incute nell’opinione pubblica polacca, dell’astio verso la Germania che è ancora diffuso, dell’appoggio che la Polonia ha dato alla pacifica rivoluzione ucraina del 2004, ricevendo per questo dalla Russia accuse di espansionismo, dell’atteggiamento superficiale di molti polacchi nei confronti dell’Unione Europea, vista soltanto come portatrice di benessere economico e di centri commerciali. Jarrek contesta la dicitura “Europa Orientale” riferita a Polonia e Repubblica Céca, nega che la Russia sia parte dell’Europa, mi spiega che, una volta occupato il suo Paese, è stato con l’abolizione della proprietà privata che i sovietici hanno sradicato dai polacchi qualsiasi interesse personale e, quindi, la possibilità stessa di rivendicazioni democratiche. Inevitabilmente, si finisce a parlare di Locke e del diritto alla proprietà, del legame fra protestantesimo e democrazia, del familismo amorale italiano e di quello polacco, delle prime riforme scolastiche avviate in Polonia, che in Italia rimarranno sogni nel cassetto.
«Non possiamo sedare tutte le cose che detestiamo», è scritto su un muro nei dintorni di Wrocław. Quindi ne parliamo, confidando di riuscire, con questa specie di esorcismo, ad alleviarne il peso.

domenica 26 settembre 2010

Vostok, parte quinta





Isolamento




Da Lodz, via Tezew, raggiungo Kaliningrad, la città russa che, dopo l’allargamento del 2004, si trova circondata da ogni lato da Paesi dell’Unione Europea. L’importanza di Kaliningrad per la Russia risiede nel suo porto, che si affaccia sul Mar Baltico e d’inverno, unico fra i porti occidentali russi, non è bloccato dai ghiacci. La sua peculiarità, tuttavia, sta nel fatto che è una città che ne ha completamente sostituita un’altra preesistente. In questo medesimo luogo, infatti, fino al 1945 sorgeva la prussiana Königsberg. Il 6 aprile 1945 l’Armata Rossa si presentò alle porte della città e, dopo un primo attacco condotto con l’artiglieria e l’aviazione, il generale Vasilevsky intimò la resa alla guarnigione tedesca, che rispose esponendo uno striscione con la scritta «Non ci arrenderemo mai». Iniziò, così, la battaglia per le strade della città. I sovietici ebbero la meglio alle 9,30 del 9 aprile, quando il generale tedesco Otto Lasch accettò di arrendersi; trasferito in URSS come prigioniero di guerra, vi rimarrà fino al 1955. Durante l’assalto erano morti 42.000 fra soldati e ufficiali tedeschi e 60.000 sovietici. I bombardamenti avevano raso al suolo tutti gli edifici; le rovine del castello duecentesco vennero abbattute con la dinamite, come è documentato dalle fotografie esposte nel museo civico. La cattedrale, peraltro di modeste proporzioni, l’adiacente tomba di Immanuel Kant e la stazione ferroviaria sono le uniche strutture sopravvissute in superficie alla battaglia. Nel sottosuolo, invece, si può visitare il bunker in cui era installato il comando del generale Lash. All’ingresso, una guida mi chiede se sono tedesco e alla mia risposta negativa mi indica con sufficienza le didascalie in inglese che ricostruiscono le fasi della battaglia. Poco dopo, compare una comitiva di turisti tedeschi e la guida, rallegrata, li accompagna nella visita raccontando gli avvenimenti nella loro lingua, con un compiacimento che sembra nascere dalla consapevolezza di infierire sul nemico sconfitto. Per mantenere la presa sulle masse il Potere non esita a sostituire le proprie icone: la statua di Lenin è stata rimossa dalla piazza principale, ufficialmente perché in cattivo stato di conservazione, ma sulla stessa piazza è in fase di ultimazione un’imponente chiesa ortodossa con le cupole dorate. È rimasta, invece, la statua dedicata ai cosmonauti sovietici, presenti anche nelle fotografie esposte al museo civico, una delle quali è intitolata «Viva la amistad sovietico-cubana!» e ritrae un equipaggio misto. I negozi, compresi quelli di alimentari, sono concentrati intorno al mercato coperto e nelle strade del centro è pressoché impossibile acquistare del cibo, anche perché i ristoranti sono rari. Ci sono, però, molti chioschi che vendono birra e sembra quasi obbligatorio per gli uomini, specie se giovani, camminare tenendone una bottiglia in mano. Alla Yuzhni Vokzal, la stazione sud, di Kaliningrad ho acquistato un biglietto per San Pietroburgo. Imprevidente come il mitico Epimeteo, avevo immaginato, osservando le linee ferroviarie disegnate sulla mia cartina della zona, che il treno avrebbe attraversato le Repubbliche Baltiche, ovvero avrebbe seguito il tragitto più diretto per raggiungere San Pietroburgo. Non ho chiesto conferma né in biglietteria né ai poliziotti che mi hanno controllato i documenti prima della partenza, e nemmeno al personale del treno. La prima fermata è Vilnius, le mie convinzioni reggono. Contrariamente a quanto pensavo, il treno non è affatto inaccessibile durante il tratto lituano. Nello scompartimento che occupo, infatti, prendono posto una signora anziana dal viso molto dolce, la figlia e il nipote di sei anni. Sono russi, ma le due donne hanno vissuto in Lituania fino al 1989. Lasciata Vilnius, il treno piega verso sud-est e poco dopo mi trovo alle prese con una guardia di frontiera bielorussa che mi invita a scendere dal treno con tutti i bagagli. Le mie compagne di scompartimento mi traducono in inglese il discorso del poliziotto: il treno passerà per Minsk e io non ho il visto di transito per la Bielorussia, pertanto devo scendere e ritornare a Vilnius. La stazione di frontiera bielorussa è costituita da due piccole costruzioni, una ospita la biglietteria e l’altra la polizia di frontiera, e non è vicina a una città o a un paese. I poliziotti mi accompagnano alla loro stazione, mi fanno sedere su una panca e mi requisiscono il passaporto. Pochi minuti dopo, arriva una poliziotta che mi spiega, in inglese, la mia situazione: non posso fare il visto alla frontiera, devo attendere il treno per Vilnius delle 21 e tornare in Lituania. Mi aiuta a cambiare i rubli e comprare il biglietto, ma non mi restituisce il passaporto. Non mi è permesso allontanarmi dalla stazione e non ci sono nemmeno treni in transito. Se ce ne fossero potrei almeno passare il pomeriggio guardando i loro passeggeri arrivare e partire. Un paio di minuti prima delle 21 i poliziotti mi accompagnano al treno e soltanto lì mi restituiscono il passaporto. Il trenino che mi riporta in Unione Europea è quanto di più diverso ci si possa immaginare per un collegamento internazionale fra Minsk e Vilnius: sono tre carrozze simili a una metropolitana, in cui sono affollate decine di donne con borsoni pieni di vodka, sigarette e capi di abbigliamento che venderanno in Lituania. Dalla panca sulla quale ho passato il pomeriggio non lo potevo vedere, ma accanto alla biglietteria c’è un duty free shop, dove le donne si riforniscono delle loro mercanzie.

venerdì 24 settembre 2010

Vostok, parte sesta



Liberatori


Gedimino prospekta, il boulevard centrale di Vilnius, è dedicato a Gediminas, il granduca filosofo che fondò la città nel 1323. In quei tempi, scrive Saulius Žukas, la pace religiosa regnava nella città e nel territorio. La tradizione della tolleranza ereditata dai tempi pagani e la difesa delle minoranze religiose da parte dell’aristocrazia fecero della Lituania un centro europeo del liberalismo. Nel 1563 fu ufficialmente proclamato, per la prima volta in Europa, il privilegio che riconosceva a tutti uguali diritti di professare e propagare la propria fede. Il documento diventò legge dello Stato e a Vilnius prosperarono le comunità calvinista e luterana, cattolica e ortodossa. La libertà di stampa era assoluta e la città offrì riparo a Ivan Fiodorov, il primo tipografo russo, costretto ad abbandonare Mosca dalla folla che, istigata dai monaci ortodossi amanuensi, gli aveva distrutto la tipografia. L’atmosfera tollerante favorì nel Seicento lo sviluppo della cultura ebraica, espressione di una comunità che i Granduchi avevano invitato a stabilirsi nel Paese nel XIV secolo. Nei dintorni di Vilnius giunsero anche i Caraimi, un popolo di origine turca che aveva abbracciato la religione ebraica di tradizione più antica, precedente all’introduzione del Talmud. Un quartiere di Vilnius, poi, ospitava i Tartari e le loro moschee, nelle quali essi tenevano esposti ritratti del granduca Vytautas, che li aveva chiamati in Lituania a servire nei reggimenti di cavalleria del suo esercito.
Sul prospekta, all’altezza di Lukiškiy aikšte, una piazza fino ad alcuni anni fa dominata dalla statua di Lenin, si trova un palazzo, costruito nel 1899, che è sempre stato scelto come residenza dagli invasori della Lituania: quartier generale dei Polacchi dopo la prima guerra mondiale, quindi della Gestapo e, infine, del KGB. Di quest’ultimo, nei sotterranei, si possono visitare le prigioni. Infernale è la stanza della tortura con l’acqua: al centro della cella c’è un disco metallico di neanche mezzo metro di diametro, rialzato rispetto al pavimento e collegato a un motore sottostante; il detenuto veniva posto sul disco, circondato da acqua gelida, e fatto ruotare su se stesso finché perdeva l’equilibrio e cadeva in acqua; la procedura era ripetuta fino al cedimento del prigioniero. Ora il pianterreno dell’edificio ospita il Museo delle Vittime del Genocidio, in cui è allestita una mostra sulla resistenza antisovietica. La prima reazione dei lituani all’occupazione da parte dell’Armata Rossa venne organizzata dai suoi diplomatici in servizio all’estero: il 19 settembre 1940 essi si riunirono a Roma e formarono un Comitato Nazionale Lituano (LTK) che avrebbe dovuto coordinare gli sforzi per la liberazione del Paese. Le divisioni interne fra filo-tedeschi e filo-britannici, però, paralizzarono questo embrione di governo in esilio. Il 17 novembre, a Berlino, nacque, invece, il Fronte degli Attivisti Lituani (LAF), il quale organizzò la rivolta del giugno 1941, coordinandosi con i piani tedeschi di invasione dell’URSS. Dopo tre giorni di insurrezione partigiana, il 26 giugno l’esercito tedesco entrò in Lituania, accolto dalla popolazione con lacrime di gioia e lanci di fiori. L’Armata Rossa rioccupò il Paese il 13 luglio 1944 e diede inizio a una metodica repressione di qualsiasi tentativo di resistenza. I partigiani, allora, cercarono rifugio nelle foreste, che rimasero le loro basi operative fino al 1953.
Del periodo dell’occupazione nazista non si parla e per trovare qualche informazione mi sposto al Museo Ebraico Vilna Gaon. All’inizio del Novecento Vilnius era uno dei principali centri ebraici in Europa e aveva dato i natali a numerosi sionisti, a esperti studiosi del Talmud e della Bibbia e al pittore Chaim Soutine. Nel 1941 l’antisemitismo era diffuso e insisteva sulla presenza di alcuni ebrei fra i bolscevichi lituani che collaboravano con gli occupanti sovietici. Le uccisioni di cittadini ebrei e il furto dei loro beni cominciarono ancor prima dell’arrivo dell’esercito tedesco e le SS non faticarono a trovare collaborazionisti, alcuni dei quali si autodefinirono “Combattenti per la Libertà”, esattamente come avrebbero fatto i partigiani antisovietici alcuni anni più tardi. I curatori del museo spiegano che «i nazisti vennero accolti come i liberatori della Lituania, meritevoli dell’eterna gratitudine del Paese e della Chiesa cattolica». Un ristretto numero di membri del clero condannò il comportamento dei lituani, tuttavia nessun esponente delle autorità religiose fece nulla per fermarli. L’atteggiamento del governo provvisorio fu di benevola indifferenza. Nel 1995, comunque, è stata aperta la Galleria dei Giusti della Lituania, in cui sono ricordati i 2300 cittadini che aiutarono gli ebrei durante l’occupazione nazista.
Il Museo ospita una mostra sugli ebrei lituani che combatterono contro i nazisti: gruppi armati di resistenti sorsero, fra il dicembre 1941 e il gennaio del 1942, nei ghetti di Vilnius e Kaunas, dediti soprattutto ad azioni di sabotaggio. Nei due anni seguenti circa 1.800 ebrei fuggirono dai ghetti e dai campi di lavoro, si rifugiarono nei boschi e si unirono ai partigiani. Leggendaria è diventata la fuga del 15 aprile 1944 dal campo di sterminio di Paneriai: ottanta prigionieri scapparono attraverso un tunnel che avevano scavato nella terra a otto metri di profondità. Soltanto undici di essi riuscirono a raggiungere le basi dei partigiani. Come gli altri fuggiaschi, entrarono a far parte della resistenza lituana, organizzata in quattro distaccamenti: Il Vendicatore, La Vittoria, La Lotta e Morte al Fascismo. In seguito, i partigiani confluirono nella XVI Divisione Lituana dell’Armata Rossa. Quattro di essi, Vulf Vilenski, Kalman Shur, Grigorij Ushpol e Berel Cindel, ricevettero il titolo di “Eroe dell’Unione Sovietica” per i loro meriti bellici.
Anche Napoleone, come spiega una mostra temporanea allestita al Museo Nazionale, aveva suscitato l’entusiasmo dei lituani. Il loro Stato si era costituito a metà del XIII secolo, riunendo i samogiziani, i semigalli, i curi, i suduvi, gli iotvingi e una parte dei seli, e, assunta la forma di Granducato, era diventato uno dei più estesi Stati d’Europa; nel 1398, infatti, aveva i suoi confini meridionali presso la Crimea e a est si estendeva fino a circa cento chilometri da Mosca. Nel XVIII secolo, però, era stato occupato da russi, austriaci e prussiani. Fin dalle vittorie francesi contro la Prussia nel 1807, perciò, l’aristocrazia lituana si era espressa a favore di azioni militari in appoggio a Bonaparte, ma fu frenata dall’accordo di pace da questi firmato con lo zar e dovette attendere il 1812 per vedere Napoleone attaccare l’impero russo. L’esercito francese attraversò il fiume Nemunas a Kaunas il 24 giugno, il 28 giunse a Vilnius, che divenne la sua base amministrativa, e il primo luglio Bonaparte creò il governo provvisorio del Granducato di Lituania, formato da un gruppo di cittadini che comprendeva anche i rivoltosi indipendentisti del 1794. L’8 dicembre, dopo la disastrosa sconfitta della Berezina, Vilnius fu attraversata dai francesi in ritirata, ma le aspettative di libertà eccitate da Napoleone animeranno ancora le ribellioni antizariste del 1831 e del 1863.

mercoledì 22 settembre 2010

Vostok, parte settima


Singing Revolution


Il Museo dell’Occupazione Sovietica di Riga mette in risalto alcuni fatti storici, primo fra tutti l’alleanza fra Hitler e Stalin che si tradusse, dopo il patto von Ribbentrop-Molotov, nella fine dell’indipendenza delle Repubbliche Baltiche, occupate nel 1940 dall’Armata Rossa. I sovietici e i nazisti, che prenderanno il loro posto nel 1941, avevano piani simili: sfruttare e colonizzare i tre Paesi, russificandoli o germanizzandoli. I tedeschi, però, furono più accorti e si accattivarono le simpatie della popolazione ripristinando la piccola proprietà privata e cavalcando l’odio nei confronti degli ebrei bolscevichi. Si sottolinea anche l’atteggiamento degli Alleati che, dopo il 1945, abbandonarono le tre repubbliche al loro destino, e della Svezia, la quale rimpatriò numerosi fuoriusciti, consegnandoli nelle mani dei sovietici. Il periodo postbellico fu segnato dalla deportazione nei gulag degli oppositori del regime e il museo espone un oggetto significativo: un bidone metallico che i deportati erano costretti a utilizzare come gabinetto, con il bordo rozzamente tagliato in modo da rendere scomodo e pericoloso servirsene.
A Riga conosco un mio coetaneo che fu protagonista dell’indipendenza ottenuta dalla Lettonia nel 1991. Ci incontriamo negli uffici del Fronte Popolare, il raggruppamento di forze politiche che guidò il Paese verso l’indipendenza dall’Unione Sovietica, e mi racconta dell’appoggio delle comunità di lettoni emigrati in USA, Gran Bretagna, Svezia e Australia, del ritorno di alcuni di essi nel periodo decisivo, del mancato riconoscimento dell’incorporazione della Lettonia nell’URSS da parte di una ventina di Stati (fra i quali non figura l’Italia), che ha costituito un prezioso riferimento giuridico per il movimento indipendentista.
Non solo il Fronte Popolare riuscì, come il CLN italiano, a riunire forze politiche eterogenee, ma seppe coordinare le sue azioni in Lituania, Lettonia ed Estonia e mantenere fino alla fine un carattere non-violento. Alla fine degli anni Ottanta, per esempio, le principali riunioni dei sostenitori dell’indipendenza dell’Estonia avvennero in occasione dei festival nazionali della canzone, a cui parteciparono migliaia di persone che cantavano motivi indipendentisti. Il 23 agosto 1989, in occasione del cinquantesimo anniversario del patto von Ribbentrop-Molotov, fu organizzata una catena umana che unì le tre capitali, con un’estensione di seicento chilometri e la partecipazione di due milioni di persone. In Estonia il processo che nel 1991 portò al distacco dall’URSS avvenne all’interno delle istituzioni, cioè Governo, Soviet Supremo dell’Estonia e Partito Comunista dell’Estonia, e fu merito del Fronte Popolare, il quale seppe coalizzare tutta la popolazione estone che costituiva la grande maggioranza degli abitanti della Repubblica Socialista Sovietica Estone.
Il museo civico di Tallinn ricostruisce, attraverso filmati originali, i passaggi che portarono all’indipendenza: l’introduzione dell’estone come lingua ufficiale, il cambio della bandiera e della moneta. Con onestà, vengono mostrate anche le proteste della minoranza russa che non voleva la separazione dall’URSS. Un gentile impiegato del museo mi conferma il ruolo fondamentale che Gorbačëv ebbe nell’avviare la catena di eventi che condusse all’indipendenza delle Repubbliche Baltiche. Già Jarrek, in Polonia, aveva sottolineato questo aspetto, mentre, in un’edicola, fissavamo attoniti la pubblicità di una serie di DVD che celebravano papa Wojtyla come unico artefice della disgregazione dell’impero sovietico. Il museo espone anche le foto delle barricate erette nel gennaio 1991, quando si temeva una repressione militare sovietica, della dichiarazione d’indipendenza del 20 agosto e della colonna di carri armati che si era messa in marcia per impedirla, poi richiamata da Yeltsin.
In Lettonia, non tutti i conti con il passato sovietico sono stati chiusi. In questi giorni le cronache politiche riportano il caso del Presidente della Commissione Affari Esteri del Parlamento, Aleksandrs Kiršteins, il quale è stato costretto alle dimissioni ed espulso dal suo partito per avere dichiarato che la comunità ebraica non dovrebbe più comportarsi come nel 1940, quando «diede il benvenuto» ai carri armati sovietici. Kiršteins è noto anche per le sue polemiche prese di posizione nei confronti della Russia e della minoranza russa in Lettonia. Lo stesso tracciato del confine con la Russia, del resto, non è ancora definito, sebbene ora si tratti del confine orientale dell’Unione Europea. L’area contesa è la regione di Abrene, oggi abitata in prevalenza da russi. Prima della Seconda Guerra Mondiale apparteneva alla Lettonia, ma durante l’occupazione sovietica il confine fu spostato e la regione consegnata alla Russia. Il governo lettone, che sostiene la validità degli accordi di pace del 1920, e Vladimir Putin, che ha definito tale affermazione una «stupidaggine», non hanno ancora trovato un accordo.
Oggi i russi costituiscono circa un quarto della popolazione. Quelli di loro che sono nati prima del 21 agosto 1991 devono sostenere un esame per ottenere la cittadinanza lettone, a meno che non l’avessero già prima del 17 giugno 1940, data dell’invasione sovietica. All’esame bisogna dimostrare la padronanza della lingua, la conoscenza della storia lettone, della Costituzione e dell’inno nazionale. Chi non sostiene o non supera l’esame rimane un “non cittadino stabilmente residente nel Paese” e, pertanto, non ha né passaporto né diritto di voto. Se si pensa alla politica di russificazione imposta dall’URSS ai Paesi baltici, il contrappasso è evidente. Molti russi hanno deciso di provare l’esame, attirati soprattutto dalle prospettive di lavoro e di circolazione negli altri Paesi dell’Unione Europea. Dima e Zurab, due giovani sulla trentina, mi raccontano una motivazione politica: il primo vuole poter votare per influenzare le scelte del Paese, il secondo dice di sentire il bisogno di appartenere a uno Stato. Altri si rifiutano di sostenere la prova, forse per orgoglio. L’impressione che si ha nei negozi e nei ristoranti, comunque, è che i russi finiscano per svolgere i lavori meno redditizi.
Ogni anno in autunno, un piccolo vecchietto con i capelli grigi emerge dal lago Ülemiste, nei pressi di Tallinn, e, in piena notte, raggiunge i cancelli della città. Alle guardie chiede: «È finita la costruzione della città?» Le guardie devono rispondere di no, che mancano ancora molti anni, così il vecchio ritorna al lago, altrimenti, se accidentalmente rispondessero di sì, egli farebbe precipitare le acque del lago giù per le colline fino alla città, distruggendola e annegandone gli abitanti.

lunedì 20 settembre 2010

Vostok, parte ottava


Treno numero 1


Alla stazione ferroviaria di San Pietroburgo salgo sul treno numero 1, direzione Mosca. I treni che prenderò successivamente viaggeranno sulla Transiberiana, la ferrovia che mi porterà a Vladivostok. Questa parte del viaggio la condividerò con Gianmaria e Barbara. La mia amicizia con Gianmaria risale al 1992: arrivati entrambi in treno a Narvik grazie all’Interrail, ci conoscemmo su un autobus diretto a nord. Narvik, infatti, è la stazione ferroviaria più settentrionale d’Europa, l’ultima per chi, come noi quell’estate, è diretto a Capo Nord. Ci vollero tre giorni per raggiungere la meta con bus e traghetti, e fu sicuramente allora che iniziammo a organizzare la traversata della Siberia.
Il treno, di color granata sia esternamente che internamente, è dello stesso modello su cui ho già viaggiato durante il mio primo tentativo di raggiungere San Pietroburgo. Ovunque, negli scompartimenti e nei corridoi, ci sono tappeti e piante in vaso. Ritrovo gli stessi materassi, arrotolati in pesanti cilindri. Questa volta, però, ci vengono forniti un servizio da tè in porcellana, una scatola con yogurt, cereali, acqua, panini, cioccolata, pistacchi e caffè, e un set comprendente asciugamano, spazzolino, dentifricio e pettine.
La provodnitsa responsabile della nostra carrozza non si ferma un minuto: pulisce con uno strofinaccio tutte le superfici, lava tazze e teiere e ne porta di pulite ai viaggiatori, passa l’aspirapolvere sui tappeti del corridoio e degli scompartimenti, tiene in ordine la toilette, cambia i sacchi dell’immondizia e con quella contenuta nei cestini riempie al massimo i sacchi che tiene nella zona di passaggio fra i vagoni.
La stazione d’arrivo, la Leningradskij Vokzal, è un edificio identico a quello dal quale siamo partiti, la Moskovskij Vokzal di San Pietroburgo. Sono stazioni un po’ buie, ma linde, ordinate e piene di poliziotti che vegliano sull’ordine e la disciplina. Non lasciano sedere sui gradini, in compenso non ci sono tipi loschi in giro. Scendiamo nella Metro, che trasporta più persone al giorno di quelle di Londra e New York messe insieme, e si vede.

domenica 19 settembre 2010

Vostok, parte nona


La Via dell’Orda


L’arteria che penetra da sud nel cuore di Mosca si chiama Ordynka Bol’šaja Ulica, la Grande Via dell’Orda, perché da quella direzione giungeva, sette secoli fa, l’Orda d’Oro; nel migliore dei casi i mongoli, guidati dai discendenti di Gengis Khan, venivano a riscuotere dal granduca di Mosca il prezzo della loro non belligeranza, nel peggiore razziavano la città.
La mia passeggiata sull’Ordynka inizia dalla piazza Dobryninskaja, in una zona dominata dai grattacieli degli anni Sessanta e Settanta, sui quali neanche il monumento a Lenin issato su una colonna nella vicina piazza Okt’abr’skaja riesce a svettare.
Quasi a ricordare che da questa via si partiva per le più remote province dell’impero, sull’Ordynka si affacciano alcuni ristoranti georgiani e uzbeki, che sono per i russi l’esotico in fatto di cucina quanto lo è per ogni popolo europeo il cibo che viene dalle proprie ex-colonie.
Lungo l’Ordynka c’è la stazione della metropolitana Tretjakovskaja, nei pressi dell’omonima pinacoteca; come in altre zone del centro di Mosca, anche qui alla stazione sotterranea corrisponde in superficie una piazzetta contornata da chioschi che vendono birra, spuntini, telefoni e fiori. Nel tardo pomeriggio, all’uscita dal lavoro, i moscoviti, sia uomini che donne, si radunano e si attardano in queste piazzette, in piedi o seduti sui gradini delle case e dei chioschi. Le bottiglie di birra vuote, tutte da mezzo litro, si accumulano in fretta, prima sui davanzali delle finestre e poi per terra, e ogni tanto un ragazzo con un carretto passa a raccoglierle, con lo scopo, suppongo, di rivenderle.
Decido di fare anch’io come i moscoviti: mi compro una bottiglia di birra e una pagnotta ripiena di albicocche secche e mi siedo su un gradino a bere e guardare la gente. Anche l’uomo seduto accanto a me è solo e dopo qualche minuto mi chiede: «British?»; «No, sono italiano» rispondo, e brindiamo con le nostre birre. Gli offro un pezzo della pagnotta e l’uomo, dopo essersi presentato come Sergej, inizia a parlarmi in russo del suo lavoro di stomatologo, della nazionale di calcio italiana e di quella portoghese, in cui giocano alcuni calciatori che militano nella squadra di Mosca per cui lui tifa. Un altro uomo si inserisce nella conversazione: si chiama Nikolaj e si complimenta con me per i successi della nazionale italiana. «E la Russia?» chiedo, in italiano, poiché ognuno prosegue nella propria lingua. Nikolaj spiega, a gesti, che la squadra russa l’ha disgustato al punto che ha buttato il televisore dal balcone. Torniamo allora a parlare dell’Italia e dell’imminente finale dei mondiali contro la Francia e chiedo: «Guarderete la partita?» «Non posso» risponde Nikolaj, «Perché?» insisto io. «Perché la tv l’ho buttata dal balcone.»
Sergej cambia argomento e racconta della donna che lo fa soffrire, il suo tono si fa malinconico e gli occhi umidi. Apre la sua ventiquattrore, in cui ci sono soltanto quattro bottiglie di birra: ne stappa due e una me la offre. Questa volta brindiamo alle donne e conveniamo che quelle di Mosca sono le più belle del mondo. Sono ormai quasi le nove di sera, saluto Sergej e Nikolaj e mi rimetto in cammino sull’Ordynka.
Prima del ponte sulla Moscova che immette nella piazza Rossa mi fermo di fronte a ciò che resta dell’hotel Rossiya. Costruito in epoca sovietica, era l’albergo più grande del mondo, con più di seimila stanze. I russi hanno sempre avuto un debole per questo genere di primati e, nel corso dei secoli, hanno costruito, fra l’altro, la campana, il cannone di bronzo e la piscina all’aperto, ma riscaldata, più grandi del mondo.
Ora il Rossiya è in demolizione, presumo per fare posto a nuovi grattacieli. Attorno alla torre centrale, ancora intatta, si vede un immenso cantiere, una vista ricorrente nel paesaggio urbano russo.
Sulla piazza Lubyanka si affacciano palazzi dai contenuti e dalla storia più diversi: il palazzo del Ministero degli Interni, da cui venivano ordinate le purghe staliniste, la sede del KGB, il “Mondo dei bambini”, cinque piani di giocattoli da tutto il pianeta, e il museo dedicato a Majakovskij. Quest’ultimo occupa l’intero edificio in cui visse il poeta, anche se solo una stanza fu da lui effettivamente abitata. Ed è una camera con gli arredi originali, ordinata e quasi spoglia, con un divano-letto grigioverde dagli ampi braccioli, una scrivania con casellario, una libreria, un baule da viaggio blu, una stufa in ceramica incassata nella parete. Il tutto in dodici metri quadrati, i colori sono tenui e chiari e c’è una foto di Lenin appesa a una parete.
L’allestimento del museo, invece, si basa sull’idea di inclinare l’asse di tutto ciò che si trova in esposizione: mobili, sedie, lettere, fotografie, manifesti; alcuni oggetti sono stati costruiti appositamente per tale scopo, oppure ruotati di novanta gradi, o, ancora, racchiusi in vetri “piegati” lungo più linee trasversali. L’ambientazione è rutilante, ma concede troppo alla facile associazione fra avanguardia artistica e caos, come se la rivoluzione consistesse nel gettare, strepitando, secchiate di vernice colorata sulle pareti di casa. Solo la stanza di Majakovskij ha un nesso con l’avanguardia, cioè con l’emancipazione da tutto ciò che, nell’arte così come nella vita, è imitazione. Si intuisce la ricerca della forma pura, l’astrazione che vuole staccarsi dalla materia greve e opaca, quella che è riuscito a raggiungere Malevič con il Quadrato nero, il quale, alla Novaja Tretyakova Galerija, mi è apparso come una reliquia a un fedele.
Piazza Lubyanka mi fa ripensare al crescendo di una poesia di Majakovskij, Eppure, che Angelo Maria Ripellino traduce con queste parole:
Io uscii sulla piazza
a mo’ di parrucca rossiccia
mi posi sulla testa un quartiere bruciato.
Gli uomini hanno paura perché dalla mia bocca
penzola sgambettando un grido non masticato.
Ma, senza biasimarmi né insultarmi,
spargeranno di fiori la mia strada, come davanti a un profeta.
Tutti costoro dai nasi sprofondati lo sanno:
io sono il vostro poeta.
Come una taverna mi spaura il vostro tremendo giudizio!
Solo, attraverso gli edifici in fiamme,
le prostitute mi porteranno sulle braccia come una reliquia
mostrandomi a Dio per loro discolpa.
E Dio romperà in pianto sopra il mio libriccino!
Non parole, ma spasmi appallottolati;
e correrà per il cielo coi miei versi sotto l’ascella
per leggerli, ansando, ai suoi conoscenti.

sabato 18 settembre 2010

Vostok, parte decima


Bistecche d’orso


Oleg insegna inglese all’Università di Krasnoyarsk e ci porta a conoscere i dintorni della città, il parco naturale di Stolby e alcune vette dell’umorismo russo.
La città è un susseguirsi di cantieri. Sorgono grattacieli e centri commerciali, costruiti con materiali non di prima scelta, che vanno ad aggiungersi ai tre precedenti strati urbanistici siberiani: le case ottocentesche in legno a uno o due piani, gli edifici Art Nouveau dei primi del Novecento e l’edilizia popolare sovietica con la sua controparte di edifici pubblici in stile neoclassico. Nelle vie centrali, dedicate a Marx, a Lenin, alla Pace e alla Dittatura del Proletariato sono stati aperti parecchi negozi e tutti vendono merci di prima necessità.
Lasciamo il centro di Krasnoyarsk per Osvianka, un villaggio lungo il fiume Yenisei dove c’è la casa natale, oggi museo, dello scrittore Victor Astafev. Riabilitato con la perestrojka, era stato a lungo emarginato perché non allineato al partito comunista. Grazie al suo passato di combattente nella Seconda guerra mondiale, comunque, aveva goduto di una certa libertà di espressione e aveva denunciato i pericoli per l’ambiente causati dall’industrializzazione della Siberia. Una sua famosa poesia è dedicata allo storione scomparso dalle acque dello Yenisei dopo la costruzione delle dighe. Pochi anni fa, un monumento allo storione, con la poesia di Astafev incisa sul basamento, è stato eretto in un punto panoramico lungo il fiume. Gorbačëv e Yeltsin vennero a fargli visita e in quelle occasioni lo scrittore, ormai molto anziano, fu riportato nella casa natale, dove, a uso dei mass media, si finse vivesse ancora.
Oggi il villaggio è un luogo alla moda per chi vuole costruirsi una seconda casa, ma sulla porta di molte delle abitazioni più vecchie c’è una stella rossa di metallo, apposta affinché si ricordi che un membro di quella famiglia è caduto nella Grande Guerra Patriottica, come la Seconda Guerra Mondiale viene chiamata in Russia.
Risaliamo il corso del fiume, diretti alla diga di Dvinogorsk, e incontriamo molti stabilimenti abbandonati. Sono soprattutto industrie siderurgiche e chimiche, ci spiega Oleg, ferme da quindici anni: è più conveniente acquistare merci cinesi piuttosto che produrle e lo stesso discorso vale anche per la frutta e la verdura. La diga, iniziata negli anni Cinquanta, è entrata in funzione nel 1971, è alta cento metri e può produrre sei milioni di chilowatt. La sua costruzione provocò la nascita di una cittadina, i cui trentamila abitanti, però, oggi lavorano prevalentemente a Krasnoyarsk, in quanto bastano dodici persone per far funzionare la centrale idroelettrica. Nelle piazze di Dvinogorsk ci sono due monumenti: il primo è dedicato ai camion con cui furono trasportati i materiali per la costruzione della diga e consiste, ovviamente, in uno di quei mezzi issato su un piedistallo, mentre il secondo, una tenda stilizzata in metallo, fu eretto per ricordare gli operai che per primi vennero a lavorare qui, vivendo, anche d’inverno, in tende. Erano volontari, venuti per «costruire il comunismo».
Oleg, intanto, si lamenta dell’invasione degli hamburger all’americana e ci chiede se anche l’Italia ne è colpita. Rispondo che gli hamburger ci sono, ma li mangiano soprattutto i teen-ager, mentre gli adulti preferiscono i cibi tradizionali. Il suo commento è: «Patriotism comes with age». Gianmaria lo interroga sui piatti tipici della regione e lui dice che non ce ne sono, che forse la specialità è una fetta d’orso cacciato nella foresta.
La riserva naturale di Stolby è una destinazione popolare per i picnic degli abitanti di Krasnoyarsk ed è celebre per una zona disseminata di imponenti rocce basaltiche che hanno assunto forme antropomorfe o zoomorfe. Chiedo a Oleg se ci sono storie o miti che riguardano l’origine di queste rocce, come avviene per quelle della Sierra Tarahumara del Messico, e lui mi risponde: «No, Indians have a lot of time for dreaming». Poi, forse pentito per la brusca negazione o forse perché si rende conto di aver irrimediabilmente escluso i russi dalla categoria dei sognatori, aggiunge che una storia c’è, e racconta che Lenin, prima della rivoluzione, aveva organizzato un raduno di bolscevichi proprio in questa selva, con tanto di canti e bandiera rossa issata sulle rocce. Raggiunti dalla polizia zarista, i sovversivi si salvarono disperdendosi nella foresta.
Un uomo si sta arrampicando in una fenditura di un gruppo di rocce. Lo osserviamo arrivare in cima e poi ridiscendere scivolando lungo un’altra fenditura soprannominata Grattapelle. L’uomo ci viene poi incontro e, scoperta la nostra nazionalità, ci rivela che ogni sera sfoglia una rivista illustrata dalle foto di Firenze, della Pietà di Michelangelo, del monte Titano e di Rimini. Quindi, ci accompagna sotto una roccia che, con le due che la sostengono ai lati, forma un arco chiamato la Porta dei Leoni. Esserci passati sotto, veniamo a sapere, ci vale la cancellazione di tutti i peccati. Purificati, facciamo per allontanarci, ma l’arrampicatore ci offre ancora un numero: salito sulla roccia dell’Elefante, che in realtà assomiglia a un maiale, ne discende facendosi scivolare a testa in giù. «You’re lucky, il n’y a pas toujours le cirque ici», commenta Oleg.

giovedì 16 settembre 2010

Vostok, parte undicesima



Edward Henry Harriman


Lasciamo Krasnoyarsk con il treno 340, il Mosca-Cita. Dividiamo lo scompartimento con Kan Hong Wei, uno dei molti cinesi che affollano il vagone nel quale sono concentrati gli stranieri. Dalla sua sacca di stoffa nera si spande l’odore delle spezie cinesi che, dieci anni fa, a Londra, adoperavo per marinare le costine di maiale, quando lavoravo nella cucina di un ristorante agli ordini di un cuoco di Hong Kong appassionato di opera lirica.
Kan, come i suoi connazionali, è diretto in Cina, a Harbin, e, per arrivarci, a Cita prenderà la Ferrovia Cinese Orientale, il ramo della Transiberiana costruito fra il 1897 e il 1901 per giungere a Vladivostok attraverso un corridoio che lo zar aveva ottenuto dall’impero cinese. I russi dovettero difenderlo dalla rivolta dei boxer nel 1899 e ne mantennero il controllo anche dopo la disfatta nella guerra contro il Giappone del 1905, al termine della quale la Russia aveva dovuto cedere ai giapponesi la Manciuria meridionale in cui si trova la ferrovia. La Ferrovia Manciuriana Meridionale, invece, che collega Pechino alla Ferrovia Cinese Orientale, cadde sotto il controllo giapponese.
Uno statunitense, Edward Henry Harriman, tentò di comprare entrambi i tratti, perseguendo il suo progetto di una ferrovia circumplanetaria. Aveva cominciato ad acquistare azioni di compagnie ferroviarie nel 1870, quando, ventiduenne, era un broker alla Borsa di Wall Street. Nel 1881 aveva assunto il completo controllo di una ferrovia nello Stato di New York, trentaquattro miglia in tutto. Negli anni Novanta sfruttò abilmente le crisi della Borsa e mise le mani sulla Union Pacific Railroad. Divenne celebre per averne ispezionato la linea, dal fiume Missouri all’Oceano Pacifico, nel 1898, controllando minuziosamente ogni miglio di binari, ogni scambio, ogni locomotiva, ogni carrozza. Alla fine, risolti tutti i problemi, era esausto, ma la ferrovia si ritrovò in ottima salute. Dopo un breve periodo di vacanza a cui l’aveva costretto il suo medico, il 31 maggio del 1899 lasciò il portò di Seattle a bordo del piroscafo George W. Elder: aveva organizzato una spedizione scientifica in Alaska, con l’intento di raccogliere dati per la costruzione di una ferrovia che la attraversasse. 


Il viaggio diede a Harriman la fama di intrepido esploratore, un fiordo e un ghiacciaio presero il suo nome, ma il progetto originale fu abbandonato, così come le trattative per l’acquisto della Ferrovia Cinese Orientale. I russi ne mantennero il controllo fino al 1935, quando la vendettero al Giappone, che tre anni prima aveva nuovamente invaso la Manciuria, ribattezzandola Manciukuo. Stalin la recuperò grazie agli accordi di Yalta, e la cedette alla Cina nel 1952 come gesto di fratellanza. Le relazioni tra l’URSS e la Cina, però, peggiorarono, fino agli scontri armati sul fiume Ussuri del 1969. La ferrovia, allora, venne chiusa e fu soltanto negli anni Ottanta che venne ricollegata alla Transiberiana.
Non importa dove arrivi, basta che sia in treno, ha detto Gianmaria, e se Harriman avesse realizzato il suo progetto potremmo arrivare a New York.
Il treno ci lascia alla stazione di Irkutsk alle 8 e 30 del mattino. In cima alla scala che dal sottopassaggio porta all’atrio sei tassisti offrono i loro servizi a un’ondata di pendolari. Ragazzini in tuta mimetica sono accampati con zaini e materassini in ogni sala d’aspetto, forse vanno in colonia. Una di loro al posto della mimetica indossa una felpa nera con la scritta «Fuck the system». Nell’atrio c’è anche un avventista del settimo giorno, camicia bianca, cravatta, pantaloni e scarpe neri, che parla americano al cellulare e ha il nome scritto in cirillico sulla targhetta appesa al taschino della camicia.
Come in ogni stazione della Transiberiana, gli orologi e i tabelloni di partenze e arrivi segnano l’ora di Mosca, distante cinque fusi orari, ma qui l’orario di apertura affisso sugli sportelli della biglietteria si basa sull’ora locale, incrinando così la compattezza del microcosmo della ferrovia, un tentacolo di Mosca lungo più di novemila chilometri.
Raggiungiamo il caseggiato all’undici di Proletarskaya Ulica dove dovrebbe trovarsi l’abitazione della signora Lena, presso cui abbiamo prenotato il pernottamento. Porte e portoni sono sbarrati e non ci sono citofoni. Stiamo per andarcene a cercare un telefono pubblico da cui contattare la padrona di casa quando arriva una ragazza e apre una delle pesanti porte di metallo, la raggiungo e le mostro il foglio con il nome e l’indirizzo della nostra ospite. Mi conferma che l’indirizzo è quello giusto ma scuote la testa leggendo il nome della signora Lena. Comunque, ci fa entrare e la seguiamo per le scale alla ricerca dell’interno numero 15, che scopriamo essere quello accanto all’appartamento della ragazza. Suono il campanello, la signora Lena apre la porta, ci accoglie calorosamente e non saluta la vicina.
La padrona di casa è una signora sulla cinquantina, piccola di statura e vivace, che ci fa accomodare in una stanza arredata con mobili massicci in legno scuro e letti coperti da stoffe leopardate. Conosce alcune parole di inglese e si prodiga a spiegare come si visita la città e come si ottiene la registrazione del visto ma facciamo fatica a capire ciò che ci vuole dire.
Irkutsk visse un periodo felice dopo la congiura dei decabristi del dicembre 1825. I ribelli erano aristocratici di idee illuministe, che avevano tentato di rovesciare il regime dello zar Nicola I. Il piano era fallito, cinque congiurati erano stati impiccati e gli altri confinati in Siberia. Le loro famiglie si stabilirono a Irkutsk, dove, grazie a energiche mogli e ingenti patrimoni, costruirono ospedali e scuole professionali per il popolo e avviarono studi naturalistici della regione sul modello dell’Encyclopédie. Oggi di quell’utopia rimangono le dimore dei decabristi, case in legno le cui finestre concentrano in sé tutta la decorazione dell’edificio: i contorni sono capolavori di scultura lignea e le persiane sono dipinte a riquadri concentrici, talora a rombi, con colori vivaci, verde, blu e bianco, o con raffinati accostamenti di grigi, beige, marroni, arancioni.


A Irkutsk c’è un ufficio informazioni per i turisti, fatto insolito in Siberia, dove prenotiamo tre posti sul minibus per l’isola di Olkhon sul lago Bajkal. Ci andiamo il giorno seguente e a Khuzir, l’unico villaggio dell’isola, troviamo sistemazione per la notte in una casa privata. Tutti gli edifici sono di legno e hanno persiane e cancelli dipinti, le porte non hanno serrature e le strade non sono asfaltate. Ci troviamo in un gruppo di case in cui ogni famiglia ospita qualche turista, tutti russi, e le donne si ritrovano a cucinare insieme per noi visitatori, che poi veniamo radunati per la cena in un refettorio comune che si affaccia sul cortile. L’attrazione di Olkhon è un promontorio roccioso che fu uno dei cinque luoghi sacri per gli sciamani della regione, ma c’è anche un porticciolo dove si possono fotografare navi arrugginite e costruzioni in legno con facciate la cui trama ricorda quella di uno scaffale stipato di libri in modo da non lasciare spazi vuoti.


Edward Henry Harriman è tra i protagonisti del racconto In Transiberiana fino a New York, inserito nell'antologia Sulle vie del mondoedizione 2021 della collana Pagine in viaggio di Neos Edizioni. 



Il racconto sarà presentato

mercoledì 30 novembre 2022
alle 17,30
al circolo TeArt
via Giotto,14
Torino

martedì 14 settembre 2010

Vostok, parte dodicesima




Olga


Scendiamo dal Vostok, il treno che collega Mosca a Pechino, a Ulan Ude, la capitale della Repubblica dei Buriati. Stiamo percorrendo a ritroso quella che, fino all’apertura del canale di Suez nel 1869, era la più importante via del tè dalla Cina all’Europa: a quei tempi Ulan Ude era la “Porta Orientale della Russia”.
La nostra nuova padrona di casa ci aspetta alla finestra e quando ci vede si sbraccia e grida in francese. È la lingua che insegna al locale Politecnico. Ci accoglie in un appartamento curato ed elegante che, come sempre, contrasta con il deprimente vano scale. Nei primi cinque minuti di conversazione fa in tempo a dirci che Gorbačëv è stato un riformatore solo a parole, mentre Yeltsin e Putin sono come i comunisti, anzi peggio, perché hanno censurato la stampa e gli stipendi dei professori universitari sono bassi. Mi torna in mente la conversazione avuta a Ekaterinburg con Elena, un’altra donna russa amante della lingua francese. Ci stava raccontando che bisogna fare attenzione alle donne al volante perché spesso si sono comprate la patente da un funzionario di polizia, ovviamente senza aver prima imparato a guidare. «Il nostro presidente Putin, però, - aveva concluso – sta combattendo la corruzione!»
La camera in cui dormirò è lo studio di Olga e così posso curiosare fra le sue foto degli anni Settanta, che la ritraggono esemplarmente nei panni della giovane intellettuale, e sfogliare i suoi libri. Ci sono Balzac e Molière, La pensée européenne au XVIIIème siècle di Paul Hazard, Traditions and Culture of the Buryats. I Buriati sono uno dei popoli nomadi di origine mongola che si stabilirono in questa regione dopo gli Unni, i Kuricani e gli Uiguri. Portarono con sé lo sciamanismo e non lo abbandonarono del tutto neanche dopo l’introduzione del buddhismo lamaista, anzi, le due pratiche religiose hanno trovato un compromesso e dato vita a una originale sintesi. Il primo monastero buddhista venne costruito nel 1741, anno in cui la zarina Elisabetta, prima fra i capi di Stato europei, riconobbe ufficialmente la religione. Un ruolo importante nella promozione del buddhismo in Buriazia lo svolse, a cavallo fra XIX e XX secolo, Agvan Dorzhiev, consigliere del tredicesimo Dalai Lama. Lo stesso Dorzhiev fu rappresentante del governo tibetano presso la corte dello zar a San Pietroburgo, dove venne costruito il più grande tempio buddhista d’Europa e dove un altro buriato, Peter Badmaev, praticava la medicina tibetana. Un allievo di Badmaev, Gombozhab Tsibikov, sfidò il divieto di ingresso, e la relativa pena di morte, imposto dalle autorità tibetane agli stranieri. Raccontò poi il suo viaggio in A Buddhist Pilgrim in Holy Tibet, libro che, però, non raggiunse la fama del contemporaneo Viaggio di una parigina a Lhasa di Alexandra David-Néel.
Da Ulan Ude: History and Modern Day apprendo, invece, la storia della colonizzazione russa in questa regione. La città fu fondata nel 1666 dai cosacchi come ostrog, campo invernale, alla confluenza dei fiumi Selenga e Ude. La zona era attraente per le possibilità di commercio fluviale con la Cina e per l’abbondanza di animali da pelliccia. Gli agricoltori vi giunsero soltanto perché forzati a farlo o esiliati dal governo zarista, che doveva provvedere alle esigenze di sostentamento di cosacchi, commercianti e cacciatori. Anche in questa città, quando ancora si chiamava Verkhneudinsk, giunse l’effetto benefico dei decabristi deportati. Qui la rivoluzione dei Soviet impiegò sei mesi per trionfare e dovette capitolare nell’agosto 1918 di fronte alla Legione Céca, un gruppo di ex-prigionieri che aveva dato vita a una repubblica separatista in Siberia, assumendo il controllo della metà occidentale della ferrovia transiberiana. Nel novembre 1917 erano 92.000 i céchi prigionieri di guerra in Russia. Il loro leader, Tomáš Masaryk, li voleva organizzare in formazioni militari che avrebbero combattuto a fianco della Russia contro gli imperi centrali e contribuito, in tal modo, alla nascita della Cecoslovacchia indipendente. I bolscevichi, però, posero fine alla guerra e i céchi dovettero affrontare un viaggio verso est di 8.000 chilometri lungo la Transiberiana per raggiungere Vladivostok, l’unico porto dal quale, in quella situazione, avrebbero potuto imbarcarsi per l’Europa. Gli scontri con i bolscevichi ebbero inizio nel maggio 1918, raggiunte le estreme regioni orientali della Russia, e culminarono, alla fine di giugno, con la presa di Vladivostok. A luglio la città fu dichiarata protettorato alleato in quanto occupata dalle truppe céche e fu così che iniziarono ad affluirvi i contingenti giapponesi e francesi che si sarebbero in seguito scontrati con l’Armata Rossa. Nel frattempo, la Legione Céca, procedendo a ritroso, si impadronì di Irkutsk e si spinse fino a Ekaterinburg e Kazan.
L’Armata Rossa riconquistò soltanto nel 1920 Verkhneudinsk, il cui nome fu mutato in Ulan Ude nel 1934 dal Comitato Centrale Esecutivo di tutte le Russie. Gli anni Trenta e, ancor di più, quelli della Grande Guerra Patriottica furono gli anni dell’industrializzazione, quando, come è scritto in questo testo del 2001, «il popolo lavorava sacrificando sé stesso, ignorando il tempo, la fatica e il riposo. Lo sforzo di molte imprese collettive fu riconosciuto dai leader del Partito, e premiato con le insegne rosse del Comitato di Difesa Nazionale. Gli intellettuali della città diedero un notevole contributo alla vittoria sulla Germania fascista. Sampilov, per esempio, dipinse numerosi quadri patriottici, fra i quali I cavalli del kolkhoz per il fronte».
La colazione è il momento della giornata in cui Olga ci dipinge la società russa contemporanea. Le tinte sono fosche: i poveri sono lasciati a sé stessi mentre i nuovi ricchi hanno tanti soldi quanta poca cultura. Nel quartiere in cui alloggiamo, tradizionalmente abitato da persone istruite, ora cominciano a comparire intrusi quali la proprietaria di una fabbrica di vodka che si sposta con la scorta armata. I nuovi ricchi mandano i figli in scuole private, li portano e li vanno prendere in auto, non li lasciano giocare in cortile e instillano in loro il virus del classismo. Tutto il contrario accadeva quando Olga era giovane, quando la gioventù faceva vita comunitaria fra i Pionieri del comunismo.
Un marinaio russo conosciuto alla stazione degli autobus di Vilnius, appassionato di battaglie navali, mi aveva raccontato che la scuola in Russia è sempre più costosa e che lui era sempre in giro per il mondo a lavorare per assicurare un buon tenore di vita alla moglie, pagare gli studi al fratello e, in futuro, ai figli. La sua teoria sulla rivoluzione del 1917: morti o fuggiti gli elementi più istruiti, il potere era caduto nelle mani di una generazione di deficienti e solo ora la situazione stava lentamente migliorando.