martedì 7 settembre 2010

Vostok, parte sedicesima


Vedere l’Albania


I coniugi Tedeschini, Alma e Giuseppe, gestiscono l’unico bed&breakfast di Durazzo. La città è la porta dell’Albania per chi vi giunga, via mare, da occidente e la coppia svolge un compito analogo: introduce i viaggiatori alla conoscenza del proprio Paese.
Sono stato raggiunto in Albania da un’amica, Elena, e la casa in cui siamo stati accolti è un edificio del 1840, uno dei pochi che sopravvivono al boom edilizio. Con la democrazia è ritornata la proprietà privata e quasi tutti quelli che si sono visti restituire gli immobili nazionalizzati dal regime comunista li cedono ai costruttori in cambio di un paio di piani del grattacielo che prenderà il posto della loro vecchia proprietà.
Questa non è una casa qualunque: era la dimora del console dell’Impero Austro-ungarico, carica che i Tedeschini hanno ricoperto e tramandato di padre in figlio, dopo essere stati, per secoli e sempre per via ereditaria, consoli della Repubblica di Venezia. La Prima Guerra Mondiale ha spazzato via l’Impero, e con esso, l’attività di famiglia; oggi Giuseppe è un agronomo che si occupa di lotta biologica e integrata, ma l’attaccamento alla storia degli antenati è grande: il ritratto della principessa Sissi che troneggia nella sala da pranzo l’ha tenuto nascosto sotto il materasso per decenni, nel periodo in cui si finiva in carcere se sorpresi ad ascoltare Celentano o i Beatles.
Ben in evidenza, nella stessa camera, troviamo un catalogo fotografico dei possedimenti absburgici, stampato nel 1896 in occasione dei cinquant’anni di regno di Francesco Giuseppe; mi appassiono a sfogliarlo perché ritrovo le città che, prima di arrivare in Albania, ho visitato in Repubblica Céca, Slovacchia, Ungheria, Croazia e Slovenia. Il volume reca sulla prima pagina il timbro del console Tedeschini.
Alla sera, Alma ci raduna intorno a una carta geografica dell’Albania e si discute delle località da visitare il giorno seguente. Una volta scelta la meta, saccheggiamo la biblioteca di famiglia per avere informazioni storiche, archeologiche, etnografiche.
A Berat, per esempio, città fondata dai Bizantini e appartenuta poi ai Turchi, lo sviluppo novecentesco non ha intaccato la coerenza architettonica dei quartieri più antichi: Gorice, Mangalem e la Cittadella. La fitta trama dei loro edifici imbiancati a calce è intarsiata di chiese bizantine, moschee e dimore signorili dei Pasha, in una delle quali è allestito un pregevole Museo Etnografico. Le fotografie delle pubblicazioni turistiche li ritraggono dal basso, evidenziandone le numerose finestre, ma dai bastioni del castello, scrutandone i tetti e la pianta, se ne può apprezzare anche l’omogeneità.
Nella Cittadella, la chiesa bizantina di San Nicola è in avanzata fase di restauro; ci soffermiamo a osservare l’affresco di una parete interna, un santo il cui occhio sinistro è stato cancellato. In quel punto il dipinto presenta un incavo profondo un paio di centimetri. Si tratta di un fatto frequente nei paesi che furono soggetti all’Impero Ottomano, spesso riportato nei resoconti dei viaggiatori occidentali fin dal diciannovesimo secolo. In ogni caso il colpevole veniva individuato fra i Turchi o gli Albanesi musulmani, a dimostrazione della loro barbarie. Negli anni Ottanta dello scorso secolo il fenomeno fu sfruttato dalla propaganda serba contro gli albanesi del Kosovo, a cui venne attribuito, fra l’altro, l’accecamento dell’affresco della principessa bizantina Simonida nel monastero di Gračanica, nei pressi di Pristina.
Della questione si è recentemente occupato Božidar Jezernik, antropologo dell’Università di Lubiana, nel suo libro Wild Europe, The Balkans in the Gaze of Western Travellers. Jezernik dimostra che erano gli stessi fedeli ortodossi a incidere gli affreschi per asportarne la polvere che si credeva avesse il miracoloso potere di guarire i disturbi della vista. Il tutto con il beneplacito del clero, che per tollerare questa pratica intascava sostanziose offerte. Perché nessun viaggiatore occidentale aveva messo in dubbio la versione sfavorevole ai musulmani e indagato personalmente? Jezernik suggerisce che essi fossero preparati a vedere soltanto ciò che avevano già deciso che avrebbero visto in quelle remote e sconosciute regioni dell’Europa. Un po’ come accade, oggi, ai turisti occidentali che vedono nel resto del mondo soltanto poveri da compatire o luoghi pittoreschi davanti a cui sospirare, in modo da potersi sentire, contemporaneamente, buoni e superiori.
La denigrazione di un Paese prepara sempre la sua “civilizzazione”, ovvero la sua colonizzazione. Bismarck, ci racconta Giuseppe, sosteneva che in Albania ci fossero uomini con la coda; non era il solo, tant’è che Jezernik dedica all’argomento uno dei più gustosi capitoli del suo libro.
Non solo la vista, ma anche l’udito può ingannare: è forse perché il cognome Tedeschini suona italiano che una giovane londinese, dopo aver soggiornato nel B&B fra i cimeli absburgici, se ne è andata convinta che l’edificio fosse l’ex-consolato italiano.

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