giovedì 9 settembre 2010

Vostok, parte quindicesima


Jugo-nostalgia


Nel Museo della Città di Zagabria una sala striminzita è dedicata alla guerra degli anni Novanta. I fatti vengono ricapitolati in una didascalia di una trentina di righe, in cui è scritto che la Croazia «fu costretta a entrare in guerra» e si accenna all’operazione Storm del 4 e 5 agosto 1995 con cui essa riconquistò i territori in precedenza occupati dall’esercito serbo. Un video mostra alcuni episodi del conflitto: il papa Giovanni Paolo II benedice le truppe, soldati ridipingono con colori mimetici gli autobus urbani e, armati di saldatrice, trasformano dei furgoni in autoblinda. Esco con la sensazione di essere stato preso in giro: si vuole far credere che i croati abbiano respinto l’esercito di Milošević grazie alla loro abilità nel bricolage? Non si menziona, per esempio, la Military Professional Resources Inc., l’azienda statunitense che, con l’approvazione dell’amministrazione Clinton, fornì addestramento e personale all’esercito croato, né si fa cenno ai generali croati Gotovina, Čermak e Markač, sotto processo al Tribunale Internazionale dell’Aia per i crimini di guerra perpetrati durante l’operazione.
Cerco di capire qualcosa di più della guerra a Lubiana, andando a vedere il documentario The road of fraternity and unity di Maja Weiss. La strada B51 venne costruita dopo la Seconda guerra mondiale da 3.000 tecnici e 54.000 volontari della Gioventù Comunista per affermare l’unità jugoslava. La regista l’ha ripercorsa nel 1998, dalla Slovenia alla Macedonia, per registrare la nostalgia e l’odio, e per riannodare i legami troncati dalle attuali difficoltà di comunicazione. Uno dei giovani che lavorarono alla costruzione della strada dice: «Eravamo felici e convinti che avremmo vissuto insieme in pace e per sempre. Per come stanno le cose oggi, non è più possibile.» Un altro: «La nostalgia non è per il vecchio Stato, è per la gioventù, quando la vita era bella.»
Un intervistato racconta una barzelletta: un kosovaro albanese chiede a un montenegrino: «Com’è che voi siete 500.000 e avete uno Stato indipendente e noi che siamo due milioni non ce l’abbiamo?» «Non ti preoccupare – è la risposta – quando sarete 500.000 ce l’avrete anche voi.»
Mojca, una preziosa amicizia nata in un ostello di Rio de Janeiro, è indaffaratissima con la sua tesi di dottorato in Estetica, ma trova il tempo di portarmi al Museo di Storia Contemporanea della Slovenia per la mostra sul Plakatna Afera, ovvero lo scandalo dei manifesti del 1987. Ogni anno si celebrava il compleanno di Tito, il 25 maggio, con una staffetta con la quale la Gioventù Comunista percorreva il Paese prima di giungere a Belgrado e rendere omaggio al presidente. Le repubbliche della federazione a turno ospitavano la partenza della staffetta e preparavano il testimone e i manifesti per l’evento. Nel 1987, in un clima già indipendentista, questi compiti toccarono alla Slovenia. La giuria designata scelse il manifesto proposto dallo studio Novi Kolektivizem: un uomo, giovane e biondo, brandisce il testimone, sul quale è scolpito il torrione del parlamento di Lubiana, mentre con l’altra mano regge una bandiera della Jugoslavia, la cui asta è sormontata da una colomba bianca. Il bozzetto venne pubblicato dal quotidiano «Politika» e un lettore segnalò che si trattava della rielaborazione di un’opera degli anni Trenta del designer tedesco Richard Klein: la bandiera nazista era stata sostituita con quella jugoslava e l’aquila con la colomba. Lo studio Novi Kolektivizem fa parte, con altri artisti come il gruppo musicale Laibach (Lubiana in tedesco), del collettivo Neue Slowenische Kunst. Essi lavorano sull’estetica del potere e della sottomissione rifacendosi alle tesi dello psicanalista sloveno Slavoj Żižek. L’intento di sovversione del totalitarismo non viene perseguito attraverso la critica, la denuncia o l’ironia, bensì, secondo una strategia di sovraidentificazione, mediante la messinscena, senza alcuna presa di distanza, dei simboli di cui si sono serviti i regimi nazifascisti, il socialismo reale, l’Occidente capitalista e i recenti nazionalismi. La NSK ha costruito le basi formali della propria estetica rifacendosi alle avanguardie artistiche degli anni Venti, così come avevano fatto le ideologie politiche del Novecento. Lo spettatore è portato a sperimentare il desiderio di sottomissione che ha animato le folle seguaci delle varie forme di totalitarismo, nelle quali viene costretto a specchiarsi. L’acquisizione di questa consapevolezza rappresenta, nelle intenzioni del collettivo, l’unico strumento disponibile per evitare che nella storia si ripeta la comparsa di sistemi repressivi.
La giornata si conclude al tavolino di un caffè che si affaccia sulla piazza dedicata alla Rivoluzione Francese. Qui è stato eretto un monumento al milite ignoto dell’armata napoleonica, «tombé pour notre liberté». Bostian lavora alla televisione nazionale slovena e mi parla di un pub che tutti chiamano “Bangladesh”. Anni fa, «back in the socialist era» dice Bostian, una troupe della televisione, la cui sede è di fronte al pub, fu mandata in Bangladesh a coprire un meeting dei Paesi non allineati; prima di andare all’aeroporto, i giornalisti andarono al pub, si ubriacarono e persero l’aereo. Alcune ore dopo il direttore della televisione telefonò al pub e la cornetta fu alzata proprio da uno dei giornalisti sbronzi. Il direttore, sorpreso, gli chiese: «Ma dove sei?» e la risposta fu: «In Bangladesh!»
Il treno Lubiana-Salonicco è un pezzo di antiquariato, vecchio di almeno cinquant’anni, che può soddisfare le pretese del più esigente amante del genere “malridotto alla balcanica”: gli scompartimenti del vagone-letto hanno su un lato tre cuccette sovrapposte, accanto al finestrino c’è un lavandino a scomparsa con lo specchio per farsi la barba e in fondo al corridoio c’è una poltrona che è la postazione del controllore, dalla quale egli può vedere se si accendono le lampadine rosse che segnalano le chiamate dei passeggeri. Il controllore che mi è toccato in sorte fumerà e sospirerà lamentoso per tutta la notte. Nell’intero vagone ci sono soltanto cinque passeggeri, tutti sui sessant’anni, e fino a Belgrado non salirà più nessuno.
Esco dalla stazione di Belgrado alle sette del mattino e mi incammino verso il centro. A poche centinaia di metri di distanza, lungo la via Nemanjina, sono ben visibili due edifici sventrati dai bombardamenti della NATO del 1999. È la prima volta che visito un Paese che l’Italia ha attaccato militarmente durante la mia vita.
Il centro storico sorse alla confluenza fra il Danubio e la Sava e frutto di confluenze sono le impressioni che raccolgo durante le mie passeggiate per la città. Knez Mihailova è un’isola pedonale cosmopolita, i suoi fianchi sono architetture di stile centroeuropeo che ospitano gli uffici di banche italiane e la sua spina dorsale è una teoria di caffè all’aperto, versione contemporanea e sponsorizzata da bibite americane e birre tedesche dei caffè ottomani. La percentuale dei fumatori è altissima, all’interno e all’esterno dei locali, e il Museo di Arti Applicate ospita una mostra intitolata Ars Fumandi. Lo stesso museo dedica una retrospettiva alla designer francese Charlotte Perriand, mentre alla Galleria di Arte Contemporanea c’è Breaking Step, rassegna dell’arte contemporanea britannica. Qui il gruppo Henry VIII’s Wives espone i suoi lavori basati sul progetto del Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin custodito alla Novaja Tretyakova Galerija di Mosca. Ci sono, poi, le loro fotografie della serie Iconic Moments of the 20th Century e gli altrettanto intelligenti lavori di Adam Chozko, Nathan Coley, Jeremy Deller e del collettivo Inventory. Se isole pedonali e gallerie d’arte fanno pensare all’Europa centrale, un altro aspetto di Belgrado mi riporta a Mosca: la bellezza e l’eleganza delle donne; indimenticabile una splendida ragazza con un’incantevole camicetta di raso verde smeraldo, senza maniche e con una vistosa chiusura a fiocco sulla spalla sinistra.
I palazzi del potere sono grandiosi, come si addiceva al regno degli slavi meridionali nato dopo la Prima Guerra Mondiale e alla Repubblica di Tito, che era una potenza diplomatica e militare. In confronto, la Serbia attuale pare uno Stato che, messo in lavatrice alla temperatura sbagliata, ne è uscito ristretto. Il Museo Etnografico, tuttavia, «intende mostrare l’unità del popolo serbo riunito attorno a oggetti sacri in luoghi che, per secoli, hanno emesso il loro potere d’attrazione etnico e culturale» e la mappa esposta all’ingresso indica come «aree di etnia serba» gran parte della Bosnia e della Croazia, nonché il Kosovo e il Banato fino ad Arad e Temesvar. Vorrei conoscere la versione ufficiale degli eventi che hanno condotto alla dissoluzione della Jugoslavia, ma il Museo di Storia Jugoslava è chiuso a tempo indeterminato. Provo al Museo di Storia Militare. Nell’ultima sala sono esposti armi ed equipaggiamenti dei «terroristi albanesi del Kosovo», dei «ribelli croati» e dell’equipaggio di un caccia statunitense abbattuto nel 1999, accanto alle fotografie dei civili uccisi durante il bombardamento della città di Niš da parte della NATO. C’è anche una teca che contiene proiettili all’uranio impoverito utilizzati dai soldati della NATO. Le didascalie evidenziano la provenienza delle armi sequestrate ai croati e agli uomini dell’UCK (USA, Germania, Slovenia), ma non si fa cenno né all’origine, né all’evoluzione del conflitto fra la Serbia e la NATO.

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