venerdì 3 settembre 2010

Vostok, parte diciottesima


L’errore ontologico di Ceauşescu


Il treno notturno che da Varna mi porta a Bucarest ha come destinazione finale Mosca e appartiene alle ferrovie russe. I due provodniki del vagone sono già ubriachi prima della partenza e quello che mi controlla il biglietto non riesce a leggerlo nemmeno dopo aver inforcato gli occhiali e acceso la lampada del suo tavolino. Alla frontiera saranno strigliati dai poliziotti romeni perché non sapranno quanti sono i passeggeri del vagone, non riusciranno a contarci (siamo sette in tutto) e non troveranno neppure i propri documenti.
Radu, uno degli altri sei passeggeri, lavora a Bucarest per un parlamentare europeo romeno. Dalla stazione, raggiungiamo insieme il centro della città, dove Ceauşescu fece costruire la Casa del Popolo, un edificio smisurato e insignificante quanto Bulevardul Unirii, il viale che da esso si diparte. Nelle intenzioni del dittatore avrebbe dovuto oscurare la fama degli Champs Elysées e per realizzarlo fece radere al suolo uno dei quartieri più belli della Bucarest ottocentesca. Il boulevard è effettivamente più lungo di quello parigino di sei metri, ma l’essenza degli Champs Elysées non sta nelle dimensioni, nella forma di viale alberato fiancheggiato da edifici o nel nome paradisiaco. Sta nelle attività che le persone vi svolgono, le quali, a loro volta, attraggono altre persone e così via. Nulla di interessante, però, accade sul viale che porta alla Casa del Popolo.
Non è imponente neppure Piazza della Rivoluzione, sulla quale si affaccia il palazzo che fu sede del Comitato Centrale del Partito Comunista; qui Ceauşescu tenne il suo ultimo discorso, prima di ordinare di sparare sulla folla e tentare la fuga. Radu mi spiega che non è ancora stato allestito un museo che racconti i fatti del 1989 perché «è ancora troppo presto» e molti considerano la rivoluzione nient’altro che un colpo di stato organizzato da alcuni generali, in quanto non esisteva una vera e propria opposizione al regime. Con la fucilazione del dittatore, comunque, i romeni si scrollarono di dosso un governo che vessava i cittadini con politiche tanto opprimenti quanto prive di fondamento rispetto alle esigenze delle persone. La collettivizzazione agricola, per esempio, era necessaria all’economia quanto Bulevard Unirii lo era dal punto di vista urbanistico. L’etnografo e pittore Horia Bernea usa il termine «impostura» per definire il regime comunista; la parola sottolinea l’utilizzo di un apparato di falsità e menzogne, ed evoca, per consonanza, il ricorso a feroci imposizioni.
Ceauşescu giunse a definire «Epoca de Aur» gli anni che vanno dal 1965 al 1989, durante i quali, per pagare il debito estero, dirottò verso l’esportazione la produzione agricola e costrinse la popolazione alla denutrizione. Ad Alba Iulia una mostra racconta quel periodo in modo essenziale ma molto efficace, accostando propaganda e realtà: gli oggetti del “consumismo socialista”, per esempio, sono esposti a fianco dei rapporti della Securitate, la polizia politica che controllava gli insegnanti “calunniatori” e preparava “azioni” contro gli intellettuali dissidenti. La persecuzione di questi ultimi, tuttavia, non fu un’invenzione di Ceauşescu: Nicolae Baciu, alle cui opere oggi è dedicata una sala del castello di Bran, venne arrestato e torturato nel 1948, riuscì a evadere, attraversare a nuoto il Danubio e riparare in Jugoslavia. Arrestato anche lì, fuggì infine a Parigi, dove pubblicò le sue ricerche sul “tradimento” perpetrato alla conferenza di Yalta da Churchill e Roosevelt ai danni dei Paesi dell’Europa orientale.

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