martedì 28 settembre 2010

Vostok, parte terza



Il vigore della natura

«Il disegno è una chiave per accedere alla conoscenza e alla padronanza dei principi fondamentali della comunicazione», diceva Friedl Dicker, che fu docente del Bauhaus e una degli artisti e scienziati ebrei che nel campo di concentramento nazista di Terezin cercarono di garantire ai bambini deportati un’istruzione e, con ciò, isolarli dalla barbarie. Quanto rimane dei loro disegni è esposto nella sinagoga Pinkas di Praga e, inevitabilmente, ci fa pensare a ciò che ci siamo persi con la loro morte.
Il Municipio ospita una mostra sulla Secessione viennese, sottolineando la partecipazione degli artisti cechi a questo movimento artistico. Nel 1899 Felician von Myrbach, il direttore della Scuola di Arti Applicate di Vienna, incluse alcuni giovani artisti, fra cui Koloman Moser, nello staff dell’istituto e uno dei cardini del corso di studi divenne lo studio delle strutture organiche, in particolare delle piante, e la loro stilizzazione. Negli studi di composizione risultò, quindi, indispensabile la capacità di ricondurre la rappresentazione delle piante e degli animali alle loro forme fondamentali. Le conoscenze e le abilità di maestri quali Moser e Josef Hoffmann fluirono, attraverso gli allievi che essi diplomarono, nelle scuole di arti applicate delle terre ceche e trovarono una prima realizzazione industriale attraverso la ditta Prag-Rudniker. Gli stretti contatti con il mondo produttivo e gli scambi culturali fra i musei e le scuole di specializzazione disseminati nei territori dell’Impero erano i punti di forza del sistema scolastico-artistico austro-ungarico. Nel 1903, ispirandosi al movimento inglese Arts and Crafts, Hoffmann (nato a Pirnitz, l’attuale Brtnice in Moravia, e cresciuto a Brno), Moser e l’industriale Fritz Waerndorfer costituirono il Wiener Werkstätte (WW), con l’obiettivo di realizzare l’opera d’arte “totale”. Ne scaturirono oggetti dalle linee austere e minimaliste, fra i quali mobili, gioielli, vetri, tessuti e ceramiche; filiali furono aperte a Karlovy Vary e Mariánské Lázně (oggi in Repubblica Céca), Zurigo e New York. Fra i giovani talenti promossi da Hoffmann ci fu Schiele, autore di alcune delle celebri cartoline del WW.
Le vicende dipanate dalla mostra si interrompono con la nascita della Cecoslovacchia indipendente, in seguito alla quale i legami con Vienna vennero recisi piuttosto che rafforzati.
Prima della Grande Guerra il Wiener Werkstätte fece in tempo a influenzare un gruppo di artisti praghesi, fra i quali Gočar e Janák, che crearono un movimento artistico che si manifestò omogeneamente nelle arti figurative e in quelle applicate, nell’architettura e nella grafica. Una collezione delle loro opere, riunite sotto il titolo di Cubismo Céco, si può vedere alla Casa della Madonna Nera, un edificio, progettato proprio da Josef Gočar nel 1911, che proclama la centralità delle forme poligonali cristalline e l’esclusione dell’angolo retto, il che è piuttosto ironico per dei cubisti. Con loro buona pace, al primo piano del palazzo, il Grand Cafè Orient serve una torta di forma quadrata, una specie di ciambella il cui buco, pure, è quadrato.
Nel vecchio cimitero ebraico decine di migliaia di persone sono state sepolte in un quadrato di terra di sì e no trenta metri di lato, strato di terra su strato di terra, sopraelevando man mano sulla nuova superficie le lapidi. Rispetto al camminamento che la circonda, perciò, l’area delle sepolture ha assunto la forma di un panettone; fra le lapidi ammassate crescono alberi rigogliosi, a esse si aggrappano lumachine e rampicanti e non mancano i frutti di bosco. I periodici spostamenti e gli agenti atmosferici hanno reso le lapidi informi, simili alle pietre che si possono trovare in montagna in una foresta di alberi secolari, e hanno cancellato i nomi che vi erano stati scolpiti, vanificando le accademiche distinzioni fra umano e naturale o, peggio, fra umano e umano. Complice la mia ignoranza dei caratteri ebraici ancora leggibili, il cimitero mi appare come l’ápeiron teorizzato da Anassimandro, in cui, dopo la morte, si supera finalmente la nostra individualità, la quale, facendoci rimpiangere l’unione originaria con il Tutto, tanto ci fa soffrire di solitudine nel corso della vita.
Sono permeate del vigore della natura le forme create dal campione dell’Art Nouveau céca, Alfons Mucha, la cui fama è legata ai manifesti degli spettacoli teatrali di Sarah Bernardt, che egli disegnò, a Parigi, fra il 1894 e il 1900. In quello della Medea fa indossare un elaborato bracciale a forma di serpente all’attrice, la quale ne rimase a tal punto incantata da ordinarne uno identico a George Fouqet, il futuro datore di lavoro di Mucha. Nell’affiche per la tipografia Cassan Fils, invece, un bordo costituito da una miriade di occhi rappresenta i lettori.
A diciannove anni Mucha viveva a Vienna, era pittore di scene teatrali e venne notato dal conte Khuen-Belassi, che ne sponsorizzò gli studi a Monaco di Baviera. Negli anni Novanta incontrava nel suo studio parigino scrittori, musicisti e pittori, fra i quali Gauguin, che si fece fotografare mentre suonava il piano senza indossare i pantaloni; nello stesso studio faceva proiettare i primi film dei fratelli Lumière. Eppure, due decenni più tardi, questo raffinato cosmopolita si tramutò in un ardente nazionalista. Come è possibile? I nazionalismi ottocenteschi e novecenteschi hanno causato immani sciagure e sono stati secondi solo alle religioni come fonte di odio e di guerre. Non è forse preferibile vivere in uno spazio politico che sia il più ampio possibile e che comprenda il maggior numero di popoli e di città, in modo da moltiplicare le opportunità di studio, lavoro e crescita dei suoi cittadini, piuttosto che in Stati nazionali che costringono i propri abitanti in ambienti culturali miseri e soffocanti?

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