mercoledì 22 settembre 2010

Vostok, parte settima


Singing Revolution


Il Museo dell’Occupazione Sovietica di Riga mette in risalto alcuni fatti storici, primo fra tutti l’alleanza fra Hitler e Stalin che si tradusse, dopo il patto von Ribbentrop-Molotov, nella fine dell’indipendenza delle Repubbliche Baltiche, occupate nel 1940 dall’Armata Rossa. I sovietici e i nazisti, che prenderanno il loro posto nel 1941, avevano piani simili: sfruttare e colonizzare i tre Paesi, russificandoli o germanizzandoli. I tedeschi, però, furono più accorti e si accattivarono le simpatie della popolazione ripristinando la piccola proprietà privata e cavalcando l’odio nei confronti degli ebrei bolscevichi. Si sottolinea anche l’atteggiamento degli Alleati che, dopo il 1945, abbandonarono le tre repubbliche al loro destino, e della Svezia, la quale rimpatriò numerosi fuoriusciti, consegnandoli nelle mani dei sovietici. Il periodo postbellico fu segnato dalla deportazione nei gulag degli oppositori del regime e il museo espone un oggetto significativo: un bidone metallico che i deportati erano costretti a utilizzare come gabinetto, con il bordo rozzamente tagliato in modo da rendere scomodo e pericoloso servirsene.
A Riga conosco un mio coetaneo che fu protagonista dell’indipendenza ottenuta dalla Lettonia nel 1991. Ci incontriamo negli uffici del Fronte Popolare, il raggruppamento di forze politiche che guidò il Paese verso l’indipendenza dall’Unione Sovietica, e mi racconta dell’appoggio delle comunità di lettoni emigrati in USA, Gran Bretagna, Svezia e Australia, del ritorno di alcuni di essi nel periodo decisivo, del mancato riconoscimento dell’incorporazione della Lettonia nell’URSS da parte di una ventina di Stati (fra i quali non figura l’Italia), che ha costituito un prezioso riferimento giuridico per il movimento indipendentista.
Non solo il Fronte Popolare riuscì, come il CLN italiano, a riunire forze politiche eterogenee, ma seppe coordinare le sue azioni in Lituania, Lettonia ed Estonia e mantenere fino alla fine un carattere non-violento. Alla fine degli anni Ottanta, per esempio, le principali riunioni dei sostenitori dell’indipendenza dell’Estonia avvennero in occasione dei festival nazionali della canzone, a cui parteciparono migliaia di persone che cantavano motivi indipendentisti. Il 23 agosto 1989, in occasione del cinquantesimo anniversario del patto von Ribbentrop-Molotov, fu organizzata una catena umana che unì le tre capitali, con un’estensione di seicento chilometri e la partecipazione di due milioni di persone. In Estonia il processo che nel 1991 portò al distacco dall’URSS avvenne all’interno delle istituzioni, cioè Governo, Soviet Supremo dell’Estonia e Partito Comunista dell’Estonia, e fu merito del Fronte Popolare, il quale seppe coalizzare tutta la popolazione estone che costituiva la grande maggioranza degli abitanti della Repubblica Socialista Sovietica Estone.
Il museo civico di Tallinn ricostruisce, attraverso filmati originali, i passaggi che portarono all’indipendenza: l’introduzione dell’estone come lingua ufficiale, il cambio della bandiera e della moneta. Con onestà, vengono mostrate anche le proteste della minoranza russa che non voleva la separazione dall’URSS. Un gentile impiegato del museo mi conferma il ruolo fondamentale che Gorbačëv ebbe nell’avviare la catena di eventi che condusse all’indipendenza delle Repubbliche Baltiche. Già Jarrek, in Polonia, aveva sottolineato questo aspetto, mentre, in un’edicola, fissavamo attoniti la pubblicità di una serie di DVD che celebravano papa Wojtyla come unico artefice della disgregazione dell’impero sovietico. Il museo espone anche le foto delle barricate erette nel gennaio 1991, quando si temeva una repressione militare sovietica, della dichiarazione d’indipendenza del 20 agosto e della colonna di carri armati che si era messa in marcia per impedirla, poi richiamata da Yeltsin.
In Lettonia, non tutti i conti con il passato sovietico sono stati chiusi. In questi giorni le cronache politiche riportano il caso del Presidente della Commissione Affari Esteri del Parlamento, Aleksandrs Kiršteins, il quale è stato costretto alle dimissioni ed espulso dal suo partito per avere dichiarato che la comunità ebraica non dovrebbe più comportarsi come nel 1940, quando «diede il benvenuto» ai carri armati sovietici. Kiršteins è noto anche per le sue polemiche prese di posizione nei confronti della Russia e della minoranza russa in Lettonia. Lo stesso tracciato del confine con la Russia, del resto, non è ancora definito, sebbene ora si tratti del confine orientale dell’Unione Europea. L’area contesa è la regione di Abrene, oggi abitata in prevalenza da russi. Prima della Seconda Guerra Mondiale apparteneva alla Lettonia, ma durante l’occupazione sovietica il confine fu spostato e la regione consegnata alla Russia. Il governo lettone, che sostiene la validità degli accordi di pace del 1920, e Vladimir Putin, che ha definito tale affermazione una «stupidaggine», non hanno ancora trovato un accordo.
Oggi i russi costituiscono circa un quarto della popolazione. Quelli di loro che sono nati prima del 21 agosto 1991 devono sostenere un esame per ottenere la cittadinanza lettone, a meno che non l’avessero già prima del 17 giugno 1940, data dell’invasione sovietica. All’esame bisogna dimostrare la padronanza della lingua, la conoscenza della storia lettone, della Costituzione e dell’inno nazionale. Chi non sostiene o non supera l’esame rimane un “non cittadino stabilmente residente nel Paese” e, pertanto, non ha né passaporto né diritto di voto. Se si pensa alla politica di russificazione imposta dall’URSS ai Paesi baltici, il contrappasso è evidente. Molti russi hanno deciso di provare l’esame, attirati soprattutto dalle prospettive di lavoro e di circolazione negli altri Paesi dell’Unione Europea. Dima e Zurab, due giovani sulla trentina, mi raccontano una motivazione politica: il primo vuole poter votare per influenzare le scelte del Paese, il secondo dice di sentire il bisogno di appartenere a uno Stato. Altri si rifiutano di sostenere la prova, forse per orgoglio. L’impressione che si ha nei negozi e nei ristoranti, comunque, è che i russi finiscano per svolgere i lavori meno redditizi.
Ogni anno in autunno, un piccolo vecchietto con i capelli grigi emerge dal lago Ülemiste, nei pressi di Tallinn, e, in piena notte, raggiunge i cancelli della città. Alle guardie chiede: «È finita la costruzione della città?» Le guardie devono rispondere di no, che mancano ancora molti anni, così il vecchio ritorna al lago, altrimenti, se accidentalmente rispondessero di sì, egli farebbe precipitare le acque del lago giù per le colline fino alla città, distruggendola e annegandone gli abitanti.

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