domenica 26 settembre 2010

Vostok, parte quinta





Isolamento




Da Lodz, via Tezew, raggiungo Kaliningrad, la città russa che, dopo l’allargamento del 2004, si trova circondata da ogni lato da Paesi dell’Unione Europea. L’importanza di Kaliningrad per la Russia risiede nel suo porto, che si affaccia sul Mar Baltico e d’inverno, unico fra i porti occidentali russi, non è bloccato dai ghiacci. La sua peculiarità, tuttavia, sta nel fatto che è una città che ne ha completamente sostituita un’altra preesistente. In questo medesimo luogo, infatti, fino al 1945 sorgeva la prussiana Königsberg. Il 6 aprile 1945 l’Armata Rossa si presentò alle porte della città e, dopo un primo attacco condotto con l’artiglieria e l’aviazione, il generale Vasilevsky intimò la resa alla guarnigione tedesca, che rispose esponendo uno striscione con la scritta «Non ci arrenderemo mai». Iniziò, così, la battaglia per le strade della città. I sovietici ebbero la meglio alle 9,30 del 9 aprile, quando il generale tedesco Otto Lasch accettò di arrendersi; trasferito in URSS come prigioniero di guerra, vi rimarrà fino al 1955. Durante l’assalto erano morti 42.000 fra soldati e ufficiali tedeschi e 60.000 sovietici. I bombardamenti avevano raso al suolo tutti gli edifici; le rovine del castello duecentesco vennero abbattute con la dinamite, come è documentato dalle fotografie esposte nel museo civico. La cattedrale, peraltro di modeste proporzioni, l’adiacente tomba di Immanuel Kant e la stazione ferroviaria sono le uniche strutture sopravvissute in superficie alla battaglia. Nel sottosuolo, invece, si può visitare il bunker in cui era installato il comando del generale Lash. All’ingresso, una guida mi chiede se sono tedesco e alla mia risposta negativa mi indica con sufficienza le didascalie in inglese che ricostruiscono le fasi della battaglia. Poco dopo, compare una comitiva di turisti tedeschi e la guida, rallegrata, li accompagna nella visita raccontando gli avvenimenti nella loro lingua, con un compiacimento che sembra nascere dalla consapevolezza di infierire sul nemico sconfitto. Per mantenere la presa sulle masse il Potere non esita a sostituire le proprie icone: la statua di Lenin è stata rimossa dalla piazza principale, ufficialmente perché in cattivo stato di conservazione, ma sulla stessa piazza è in fase di ultimazione un’imponente chiesa ortodossa con le cupole dorate. È rimasta, invece, la statua dedicata ai cosmonauti sovietici, presenti anche nelle fotografie esposte al museo civico, una delle quali è intitolata «Viva la amistad sovietico-cubana!» e ritrae un equipaggio misto. I negozi, compresi quelli di alimentari, sono concentrati intorno al mercato coperto e nelle strade del centro è pressoché impossibile acquistare del cibo, anche perché i ristoranti sono rari. Ci sono, però, molti chioschi che vendono birra e sembra quasi obbligatorio per gli uomini, specie se giovani, camminare tenendone una bottiglia in mano. Alla Yuzhni Vokzal, la stazione sud, di Kaliningrad ho acquistato un biglietto per San Pietroburgo. Imprevidente come il mitico Epimeteo, avevo immaginato, osservando le linee ferroviarie disegnate sulla mia cartina della zona, che il treno avrebbe attraversato le Repubbliche Baltiche, ovvero avrebbe seguito il tragitto più diretto per raggiungere San Pietroburgo. Non ho chiesto conferma né in biglietteria né ai poliziotti che mi hanno controllato i documenti prima della partenza, e nemmeno al personale del treno. La prima fermata è Vilnius, le mie convinzioni reggono. Contrariamente a quanto pensavo, il treno non è affatto inaccessibile durante il tratto lituano. Nello scompartimento che occupo, infatti, prendono posto una signora anziana dal viso molto dolce, la figlia e il nipote di sei anni. Sono russi, ma le due donne hanno vissuto in Lituania fino al 1989. Lasciata Vilnius, il treno piega verso sud-est e poco dopo mi trovo alle prese con una guardia di frontiera bielorussa che mi invita a scendere dal treno con tutti i bagagli. Le mie compagne di scompartimento mi traducono in inglese il discorso del poliziotto: il treno passerà per Minsk e io non ho il visto di transito per la Bielorussia, pertanto devo scendere e ritornare a Vilnius. La stazione di frontiera bielorussa è costituita da due piccole costruzioni, una ospita la biglietteria e l’altra la polizia di frontiera, e non è vicina a una città o a un paese. I poliziotti mi accompagnano alla loro stazione, mi fanno sedere su una panca e mi requisiscono il passaporto. Pochi minuti dopo, arriva una poliziotta che mi spiega, in inglese, la mia situazione: non posso fare il visto alla frontiera, devo attendere il treno per Vilnius delle 21 e tornare in Lituania. Mi aiuta a cambiare i rubli e comprare il biglietto, ma non mi restituisce il passaporto. Non mi è permesso allontanarmi dalla stazione e non ci sono nemmeno treni in transito. Se ce ne fossero potrei almeno passare il pomeriggio guardando i loro passeggeri arrivare e partire. Un paio di minuti prima delle 21 i poliziotti mi accompagnano al treno e soltanto lì mi restituiscono il passaporto. Il trenino che mi riporta in Unione Europea è quanto di più diverso ci si possa immaginare per un collegamento internazionale fra Minsk e Vilnius: sono tre carrozze simili a una metropolitana, in cui sono affollate decine di donne con borsoni pieni di vodka, sigarette e capi di abbigliamento che venderanno in Lituania. Dalla panca sulla quale ho passato il pomeriggio non lo potevo vedere, ma accanto alla biglietteria c’è un duty free shop, dove le donne si riforniscono delle loro mercanzie.

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