domenica 19 settembre 2010

Vostok, parte nona


La Via dell’Orda


L’arteria che penetra da sud nel cuore di Mosca si chiama Ordynka Bol’šaja Ulica, la Grande Via dell’Orda, perché da quella direzione giungeva, sette secoli fa, l’Orda d’Oro; nel migliore dei casi i mongoli, guidati dai discendenti di Gengis Khan, venivano a riscuotere dal granduca di Mosca il prezzo della loro non belligeranza, nel peggiore razziavano la città.
La mia passeggiata sull’Ordynka inizia dalla piazza Dobryninskaja, in una zona dominata dai grattacieli degli anni Sessanta e Settanta, sui quali neanche il monumento a Lenin issato su una colonna nella vicina piazza Okt’abr’skaja riesce a svettare.
Quasi a ricordare che da questa via si partiva per le più remote province dell’impero, sull’Ordynka si affacciano alcuni ristoranti georgiani e uzbeki, che sono per i russi l’esotico in fatto di cucina quanto lo è per ogni popolo europeo il cibo che viene dalle proprie ex-colonie.
Lungo l’Ordynka c’è la stazione della metropolitana Tretjakovskaja, nei pressi dell’omonima pinacoteca; come in altre zone del centro di Mosca, anche qui alla stazione sotterranea corrisponde in superficie una piazzetta contornata da chioschi che vendono birra, spuntini, telefoni e fiori. Nel tardo pomeriggio, all’uscita dal lavoro, i moscoviti, sia uomini che donne, si radunano e si attardano in queste piazzette, in piedi o seduti sui gradini delle case e dei chioschi. Le bottiglie di birra vuote, tutte da mezzo litro, si accumulano in fretta, prima sui davanzali delle finestre e poi per terra, e ogni tanto un ragazzo con un carretto passa a raccoglierle, con lo scopo, suppongo, di rivenderle.
Decido di fare anch’io come i moscoviti: mi compro una bottiglia di birra e una pagnotta ripiena di albicocche secche e mi siedo su un gradino a bere e guardare la gente. Anche l’uomo seduto accanto a me è solo e dopo qualche minuto mi chiede: «British?»; «No, sono italiano» rispondo, e brindiamo con le nostre birre. Gli offro un pezzo della pagnotta e l’uomo, dopo essersi presentato come Sergej, inizia a parlarmi in russo del suo lavoro di stomatologo, della nazionale di calcio italiana e di quella portoghese, in cui giocano alcuni calciatori che militano nella squadra di Mosca per cui lui tifa. Un altro uomo si inserisce nella conversazione: si chiama Nikolaj e si complimenta con me per i successi della nazionale italiana. «E la Russia?» chiedo, in italiano, poiché ognuno prosegue nella propria lingua. Nikolaj spiega, a gesti, che la squadra russa l’ha disgustato al punto che ha buttato il televisore dal balcone. Torniamo allora a parlare dell’Italia e dell’imminente finale dei mondiali contro la Francia e chiedo: «Guarderete la partita?» «Non posso» risponde Nikolaj, «Perché?» insisto io. «Perché la tv l’ho buttata dal balcone.»
Sergej cambia argomento e racconta della donna che lo fa soffrire, il suo tono si fa malinconico e gli occhi umidi. Apre la sua ventiquattrore, in cui ci sono soltanto quattro bottiglie di birra: ne stappa due e una me la offre. Questa volta brindiamo alle donne e conveniamo che quelle di Mosca sono le più belle del mondo. Sono ormai quasi le nove di sera, saluto Sergej e Nikolaj e mi rimetto in cammino sull’Ordynka.
Prima del ponte sulla Moscova che immette nella piazza Rossa mi fermo di fronte a ciò che resta dell’hotel Rossiya. Costruito in epoca sovietica, era l’albergo più grande del mondo, con più di seimila stanze. I russi hanno sempre avuto un debole per questo genere di primati e, nel corso dei secoli, hanno costruito, fra l’altro, la campana, il cannone di bronzo e la piscina all’aperto, ma riscaldata, più grandi del mondo.
Ora il Rossiya è in demolizione, presumo per fare posto a nuovi grattacieli. Attorno alla torre centrale, ancora intatta, si vede un immenso cantiere, una vista ricorrente nel paesaggio urbano russo.
Sulla piazza Lubyanka si affacciano palazzi dai contenuti e dalla storia più diversi: il palazzo del Ministero degli Interni, da cui venivano ordinate le purghe staliniste, la sede del KGB, il “Mondo dei bambini”, cinque piani di giocattoli da tutto il pianeta, e il museo dedicato a Majakovskij. Quest’ultimo occupa l’intero edificio in cui visse il poeta, anche se solo una stanza fu da lui effettivamente abitata. Ed è una camera con gli arredi originali, ordinata e quasi spoglia, con un divano-letto grigioverde dagli ampi braccioli, una scrivania con casellario, una libreria, un baule da viaggio blu, una stufa in ceramica incassata nella parete. Il tutto in dodici metri quadrati, i colori sono tenui e chiari e c’è una foto di Lenin appesa a una parete.
L’allestimento del museo, invece, si basa sull’idea di inclinare l’asse di tutto ciò che si trova in esposizione: mobili, sedie, lettere, fotografie, manifesti; alcuni oggetti sono stati costruiti appositamente per tale scopo, oppure ruotati di novanta gradi, o, ancora, racchiusi in vetri “piegati” lungo più linee trasversali. L’ambientazione è rutilante, ma concede troppo alla facile associazione fra avanguardia artistica e caos, come se la rivoluzione consistesse nel gettare, strepitando, secchiate di vernice colorata sulle pareti di casa. Solo la stanza di Majakovskij ha un nesso con l’avanguardia, cioè con l’emancipazione da tutto ciò che, nell’arte così come nella vita, è imitazione. Si intuisce la ricerca della forma pura, l’astrazione che vuole staccarsi dalla materia greve e opaca, quella che è riuscito a raggiungere Malevič con il Quadrato nero, il quale, alla Novaja Tretyakova Galerija, mi è apparso come una reliquia a un fedele.
Piazza Lubyanka mi fa ripensare al crescendo di una poesia di Majakovskij, Eppure, che Angelo Maria Ripellino traduce con queste parole:
Io uscii sulla piazza
a mo’ di parrucca rossiccia
mi posi sulla testa un quartiere bruciato.
Gli uomini hanno paura perché dalla mia bocca
penzola sgambettando un grido non masticato.
Ma, senza biasimarmi né insultarmi,
spargeranno di fiori la mia strada, come davanti a un profeta.
Tutti costoro dai nasi sprofondati lo sanno:
io sono il vostro poeta.
Come una taverna mi spaura il vostro tremendo giudizio!
Solo, attraverso gli edifici in fiamme,
le prostitute mi porteranno sulle braccia come una reliquia
mostrandomi a Dio per loro discolpa.
E Dio romperà in pianto sopra il mio libriccino!
Non parole, ma spasmi appallottolati;
e correrà per il cielo coi miei versi sotto l’ascella
per leggerli, ansando, ai suoi conoscenti.

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