venerdì 31 dicembre 2010

Chi sogna può muovere le montagne




Glasgow, aprile 1873. Henry Dyer sta per lasciare la sua terra natale, la Scozia: a Southampton lo attende una nave per il Giappone. Sa che non sentirà la mancanza del verde e del grigio dei panorami e dei cieli scozzesi perché il suo compagno di studi all'Anderson College, Yamao Yōzō, gli ha assicurato che li ritroverà. Quello che Dyer (un cognome che significa “tintore”) non sa è che la sua attività innescherà delle trasformazioni che modificheranno definitivamente il paesaggio stesso del Giappone e in alcuni casi, letteralmente, le sue tinte.

Venticinquenne, Dyer si è appena laureato in Ingegneria; è sempre stato uno studente brillante e, perciò, i suoi docenti lo hanno indicato per un incarico particolarmente impegnativo. Il nuovo governo giapponese ha avviato un piano di reclutamento di esperti stranieri per ottenere il trasferimento delle tecnologie necessarie a modernizzare il Paese. Dopo la Restaurazione del potere imperiale del 1868 e la conseguente fine del sistema feudale e isolazionista dello shogunato, sono saliti al potere gli esponenti più progressisti del ceto dei samurai. Nel 1863, quando erano poco più che ventenni, cinque di essi, partiti dalla città di Hagi, erano riusciti a espatriare segretamente per andare a studiare in Gran Bretagna. Ito Hirobumi, Inoue Kaoru, Endō Kinsuke e Nomura Yakichi sarebbero poi diventati, rispettivamente, il Primo Ministro, il Ministro degli Esteri, il Direttore della Zecca e il Direttore delle Ferrovie. Il quinto del gruppo, Yamao Yōzō, sarebbe stato, in qualità di Vice Ministro dei Lavori Pubblici, il fondatore e il Rettore del Collegio Imperiale di Ingegneria di Tōkyō, ai cui laureati si deve in gran parte l'industrializzazione del Paese.

Il 3 giugno del 1873, Yamao Yōzō accoglie in Giappone il suo amico Henry Dyer, che sbarca dal piroscafo britannico Avoca proveniente da Hong Kong. Nei quasi due mesi di viaggio, Dyer ha preparato il piano di studi che verrà adottato dal Collegio Imperiale di Ingegneria: basandosi su metodi di insegnamento considerati all'epoca rivoluzionari, il corso di laurea si svilupperà su sei anni, i primi due dedicati allo studio dell'Ingegneria generale, seguiti da due anni di insegnamenti specialistici e da due anni di pratica. A questo scopo, Dyer farà costruire le officine di Akabane, che diventeranno le più grandi del Giappone. Yamao Yōzō accetta senza riserve il piano di Dyer e ad agosto la loro creatura apre i battenti e accoglie i primi 56 studenti.

Nel 1883 un allievo di Dyer, Tanabe Sakuro, appena ventiduenne, discute una visionaria tesi di laurea: la canalizzazione delle acque del Lago Biwa, il maggiore bacino d'acqua dolce del Paese, dalla località di Ōtsu fino a Kyōto, che si trova ad un'altitudine di 40 metri inferiore. Tanabe ha tradotto in un progetto di ingegneria un sogno che gli abitanti di Kyōto coltivano da lungo tempo, ma progetto e sogno sarebbero destinati a rimanere irrealizzati se non si fosse verificato, nel frattempo, un evento storico per altri versi negativo: il trasferimento a Tōkyō della capitale dell'Impero. Ciò aveva provocato la crisi delle attività economiche tradizionali di Kyōto, che erano in larga misura riconducibili alle forniture di beni di lusso e di consumo destinati alla corte e ai suoi dipendenti. Da anni, le autorità municipali cercavano di stimolare la ripresa dell'economia: avevano creato, per esempio, le scuole elementari municipali e investito nell'istruzione professionale artigianale e artistica, ma non era stato sufficiente. Ora, il Governatore della Prefettura, Kitagaki Kunimichi, ha deciso di puntare sul commercio e sull'industria; un canale che collegasse Kyōto alla Prefettura di Shiga, in cui si trova il Lago Biwa, farebbe aumentare i traffici di riso, carbone, sake e ceramiche da e verso Ōsaka, faciliterebbe l'irrigazione delle colture e permetterebbe la costruzione di un impianto idroelettrico in grado di fornire energia a nuove industrie. Venuto a conoscenza della tesi di laurea di Tanabe, Kitagaki lo incarica, nel maggio 1883, di dirigere la costruzione del canale. Il progetto incomincia a perdere la consistenza dei sogni ad assumere quella del legno e della pietra.



Il primo ostacolo si presenta sotto una forma squisitamente mondana: il reperimento dei fondi necessari; l'amministrazione municipale prevede di spendere 1,25 milioni di yen (equivalenti a 10 miliardi di euro odierni) e dovrà, perciò, integrare i finanziamenti statali con l'imposizione di nuove tasse locali; a risultare determinante, sarà, però, l'intervento dell'Imperatore, che coprirà personalmente un terzo dei costi. I lavori di costruzione avranno inizio nel giugno del 1885. Per portarli a termine, Tanabe dovrà utilizzare tecnologie moderne e risorse antiche, coniugando le innovazioni d'importazione e la tradizione giapponese: lo scavo di pozzi verticali, l'uso della dinamite, materiali da costruzione in legno e, soprattutto, il proprio zelo e la manodopera dei suoi operai. Si stima che quattro milioni di persone abbiano lavorato alla realizzazione del Canale, impiegando soltanto cinque anni per terminarlo: viene ufficialmente inaugurato nel 1890 e l'anno successivo diventa operativa anche la centrale idroelettrica di Keage, sulle colline orientali di Kyōto. Per la sua progettazione, Tanabe si è ispirato alla centrale vista nel 1888 ad Aspen, in Colorado, durante un suo soggiorno negli Stati Uniti.

Poiché le acque percorrono un tunnel lungo 2436 metri e superano un dislivello di 36 metri, cose che le imbarcazioni non potrebbero fare, sempre nella zona di Keage viene costruito un piano inclinato che permette alle barche di effettuare una parte del tragitto via terra, una volta caricate su un apposito carrello che si muove su rotaie.


La disponibilità di energia elettrica e di una comoda via di trasporto delle merci rivitalizzano l'economia di Kyōto: ne beneficiano i setifici, la manifattura dei tabacchi, le industrie chimiche e meccaniche; nascono le prime linee tranviarie cittadine e la ferrovia elettrica per Fushimi, dove fiorisce la produzione di sake. Il paesaggio urbano viene radicalmente modificato e comincia ad assumere la forma attuale con l'allargamento delle vie principali, la costruzione di nuovi quartieri, di nuovi canali e delle loro diramazioni. Il sentiero che fiancheggia una di queste ultime, nella zona orientale della città, diventerà poi celebre come la “passeggiata del filosofo”, in quanto era la meta preferita di Nishida Kitarō; oggi, è un'attrazione turistica, così come il piano inclinato: il canale, infatti, a partire dagli anni Quaranta ha perso la concorrenza con le nuove ferrovie e strade rotabili per quanto riguarda il trasporto delle merci.

«Chi sogna può muovere le montagne» è una frase pronunciata dal protagonista del Fitzcarraldo di Werner Herzog. Anch'egli, come Tanabe Sakuro, vorebbe far passare le imbarcazioni là dove le montagne lo hanno sempre impedito e anch'egli (come, nella realtà, Herzog stesso) costruisce un piano inclinato per la sua nave. Fitzcarraldo frequenta il teatro dell'opera di Manaus nel periodo in cui, alla fine dell'Ottocento, la città vive il suo boom economico grazie alla produzione di caucciù e sogna di aprire un teatro per l'opera nel villaggio amazzonico in cui vive; Tanabe si trova ad Aspen quando, grazie all' estrazione dell'argento, vi si costruisce un teatro per l'opera.

Fitzcarraldo, però, a differenza di Tanabe, deve venire a un compromesso con le circostanze naturali sfavorevoli: rinuncerà alla costruzione del teatro e si accontenterà di organizzare nel suo villaggio l'esecuzione de I Puritani di Bellini. Piuttosto, è Herzog che si può accomunare a Tanabe, in quanto è riuscito, impiegandoci quattro anni e superando difficoltà di ogni genere, a portare a termine la lavorazione del film che sognava di girare. Forse, per loro due più che di sogni si deve parlare di nozomi, un termine giapponese che significa “desiderio”, “speranza” e anche “sfida”, a sottolineare il legame che unisce i progetti e l'impegno necessario per la loro realizzazione. Non per nulla Nozomi è anche il nome del più moderno dei treni superveloci che, a partire dagli anni Sessanta, hanno rivoluzionato i trasporti e le abitudini dei giapponesi; ma questa è la storia di un altro sogno.

martedì 21 dicembre 2010

Scuole che chiudono, scuole che aprono

La città di Kyōto è orgogliosa delle sue scuole elementari municipali, fondate tre anni prima che il governo nato dalla Restaurazione Meiji introducesse, nel 1872, l'istruzione elementare obbligatoria. La loro storia è celebrata nel Kyōto Municipal School Museum, che dal 1998 occupa un'ala della Scuola Elementare Kaichi, liberatasi con il calo demografico degli anni Novanta del secolo scorso.

Nel 1869 gli “anziani” di Kyōto, preoccupati per le ricadute negative che il trasferimento della capitale a Tōkyō avrebbe avuto sull'economia cittadina, “pensarono che fosse fondamentale istruire la popolazione affinché Kyōto tornasse ricca”. Ad ogni famiglia dotata di un fornello da cucina venne chiesta una donazione per costruire una scuola di quartiere e ai distretti che non riuscirono a raccogliere il denaro necessario la prefettura concesse un prestito. In questo modo, nacquero 64 scuole, che nutrirono “gli ideali di autogoverno, autodifesa e amore per la comunità” e rivitalizzarono le tradizionali produzioni artigianali e artistiche.

Nel museo non è consentito scattare fotografie, ma i cimeli esposti sono visibili sul sito http://kyo-gakurehaku.jp

Fra gli oggetti raccolti, ci sono i sussidiari degli anni Trenta che trasudano nazionalismo e militarismo e quelli degli anni Cinquanti censurati dalle autorità occupanti statunitensi. C'è il ritratto di Genzō Shimadzu, fondatore della Shimadzu Corp., industria che produce strumenti di precisione, vanto della città specialmente dal 2002, quando un suo ricercatore, Kōichi Tanaka, vinse il Premio Nobel per la Chimica.


In un'altra delle scuole elementari nate nel 1869 e rimaste inutilizzate negli anni Novanta, la Tatsuike, è stato aperto, nel novembre 2006, il Kyōto International Manga Museum. L'idea è nata alla Kyōto Seika University, che si è dotata dal 2001 di un Istituto di Ricerca sui Manga (http://imrc.jp) e dal 2006 di una Facoltà di Manga.

In Giappone i fumetti non sono più considerati una sottocultura, ma riconosciuti come un'industria strategica. Il loro successo internazionale a partire dagli anni Ottanta, e le conseguenti possibilità di espansione del mercato, ne hanno decretato la definitiva istituzionalizzazione; nel 2000, il Ministero dell'Educazione ne ha formalizzato l'ingresso nei programmi scolastici degli istituti artistici.

Il Museo, accanto alle attività di raccolta e conservazione, si propone come centro di ricerca, studi e formazione in grado di “creare cultura e sviluppo industriale” e “promuovere il turismo”. La sua ambiziosa visione è evidente nel diagramma che compare nel suo sito alla pagina

http://www.kyotomm.jp/english/about/mm/about-imrc.php

lunedì 20 dicembre 2010

Le sete di Nishijin




La storia dei tessitori di Kyōto è l'epitome delle virtù dei giapponesi: sono attaccati alla tradizione e lavorano con dedizione, sanno resistere e recuperare di fronte alle avversità, sviluppare nuove tecnologie, studiare, “raggiungere e superare” i sistemi di produzione di altri Paesi, possiedono un senso estetico raffinato e abilità artigianali impareggiabili. Osservarli all'opera è uno spettacolo appagante.

A Kyōto si producono tessuti da più di 1200 anni, da quando, nel 794, l'imperatore Kammu la scelse come capitale; per un paio di secoli, l'attività venne gestita dall'amministrazione governativa, poi nacquero dei produttori indipendenti, che rapidamente assimilarono nuove tecniche di tessitura apprese nella Cina della dinastia Sung.

Allo scoppio della guerra Ōnin, nel 1467, gran parte della città venne distrutta, compreso il quartiere dei tessitori; essi furono costretti a fuggire, ma, alla fine del conflitto, ritornarono e si stabilirono in una zona che durante la guerra era stata occupata dall'esercito; Nishijin, infatti, significa semplicemente “accampamento occidentale”.

Grazie al patrocinio della corte imperiale e dei grandi samurai, nei secoli seguenti la produzione tessile fiorì, continuando a elaborare innovazioni tecnologiche e ad assorbirne dalla Cina dell'epoca Ming.

Nel XIX secolo i tessitori di Nishijin furono costretti ad affrontare la crisi economica del 1837, il trasferimento della capitale a Tōkyō nel 1869 e, soprattutto, la nuova moda degli abiti in stile occidentale. Reagirono inviando degli osservatori a Lione, impararono ad usare i telai Jacquard a scheda perforata, e per la fine del secolo l'industria tessile era di nuovo in crescita, perfettamente inserita nello sviluppo del sistema capitalistico giapponese.

I tessuti di Nishijin sono rinomati per i loro colori. Il filato viene tinto prima della tessitura e, quindi, intrecciato sulla base di un modello disegnato e colorato a mano.



Dai modelli si ricavano le schede perforate su cui si basa il funzionamento dei telai Jacquard meccanici; accanto ad essi, da alcuni decenni i tessitori utilizzazo telai elettronici che, riducendo i costi, permettono di “portare il piacere dei tessuti di Nishijin ad un numero maggiore di persone”.


Alcune lavorazioni richiedono, infine, un ultimo aggiustamento a pennello.



I risultati sono splendidi kimono e magnifici obi.



Per saperne di più:

domenica 5 dicembre 2010

Momijigari




Fukuoka, isola di Kyūshū. Sono le 8,30 di un sabato mattina di metà novembre e mi sto lavando i denti. La mia padrona di casa, la signora Satoko, bussa alla porta del bagno e mi ingiunge di sbrigarmi; ci aspetta in strada, dice. Cinque minuti dopo, esco di casa con la madre della signora, nonna Tomoko. La fretta è dovuta la fatto che stiamo andando al tempio Raizan Sennyoji per il momijigari e la signora Satoko non vuole rimanere imbottigliata nel traffico.

Di cosa sto parlando? Il momijigari è un'attività tradizionale giapponese che consite nell'andare, in autunno, a caccia di alberi le cui foglie assumono colori particolarmente attraenti, come il rosso scarlatto degli aceri o il giallo dei ginkgo. Kari, infatti, si traduce con “caccia” e il momiji è l'acero giapponese (Acer palmatum): ne esistono centinaia di varietà, alcune delle quali raggiungono i 16 metri di altezza, e spesso l'albero assume forma emisferica. A sua volta, l'etimologia della parola momiji risale all'antico termine momizu, che significa tingere di rosso. Per estensione, il vocabolo indica anche il nono mese del calendario lunare.





Il momijigari nacque come passatempo dell'aristocrazia nell'era Heian (VIII-XII sec. d.C.), e si diffuse fra le altre classi sociali in epoca Edo, a partire dal XVII secolo. Oggi sono decine di milioni i giapponesi che in autunno si muovono alla ricerca di aceri imporporati, spingendosi anche in Canada o in Spagna, in Estremadura. I principali canali televisivi mostrano ogni giorno i luoghi migliori per la caccia; il Raizan Sennyoji Daihiohin è uno di questi, ospita un imponente acero vecchio di quattro secoli e ciò spiega la fretta della mia padrona di casa. Arriveremo in tempo per parcheggiare a una ragionevole distanza dal tempio e riusciremo a passeggiare senza doverci accalcare, ma alle 10,30, quando lasceremo il sito, incroceremo una coda di automobili di un paio di kilometri.



La caccia ai momiji inizia a metà settembre nell'isola di Hokkaido, la più settentrionale dell'arcipelago giapponese; il fronte delle foglie rosse si sposta, poi, verso sud e raggiunge le isole più meridionali alla fine di Novembre. L'ente nazionale del turismo pubblica sul proprio sito un calendario che permette di organizzare gli spostamenti nei periodi giusti.

http://www.japan-guide.com/e/e2014.html

Il più visitato dei siti giapponesi per turisti fornisce una Guida ai colori dell'autunno, in cui spiega quali alberi cambiano colore, dove e quando. Oltre ai boschi di piante caducifoglie che coprono una considerevole porzione del territorio, particolarmente apprezzati sono i giardini dei templi zen.

http://www.jnto.go.jp/eng/indepth/seasonal/seasons_2004autumn-winter/index.html





Il momijigari è un tratto distintivo della cultura giapponese che davvero accomuna cittadini di ogni estrazione sociale; gli appassionati di poesia possono risalire fino ai tanka (poemi di 31 sillabe) del VII secolo per trovare dei riferimenti, gli studiosi di estetica possono collegare la contemplazione delle foglie d'acero alla ricerca della bellezza negli aspetti fugaci ed effimeri della natura e all'apologia della transitorietà derivata dalla metafisica buddhista; chi frequenta il teatro, sia il Nō sia il Kabuki, può assistere alla rappresentazione di un dramma tradizionale intitolato Momijigari; alcuni raccolgono le foglie di acero per poi cucinarle secondo la ricetta del tempura; chiunque, se si trova in una stazione ferroviaria e deve acquistare un regalo per l'ospite che lo attende, può comprare dei dolcetti ispirati al momiji.













domenica 28 novembre 2010

Ukiyoe




Il termine giapponese ukiyoe si traduce abitualmente con "immagini del mondo fluttuante", per indicare il genere di stampe artistiche ottenute da blocchi di legno che si diffuse in Giappone a partire dal XVII secolo.





Ne Il Mondo Fluttuante e le sue immagini l'orientalista Gian Carlo Calza scrive: "In epoca medioevale il termine ukiyo, di derivazione buddhista, indicava la condizione d'impermanenza generata dal mondo quotidiano coi suoi attaccamenti da cui il saggio non deve farsi prendere perché fonte di sofferenza costante. Ma nel Seicento il senso si era del tutto rovesciato e la parola valorizzava proprio quei piaceri fuggevoli delle feste, della moda, del mondo dello spettacolo, dell'amore mercenario, della passione clandestina, dell'effimero, in una parola degli attaccamenti, contro cui la dottrina buddista metteva in guardia dal lasciarsi travolgere. In questa società si riflettevano i nuovi gusti e le nuove aspirazioni sviluppati intorno ai teatri di kabuki e alle "città senza notte". I quartieri di piacere dove le grandi cortigiane creavano nuovi gesti e comportamenti e un'eleganza vistosa e opulenta, basata sull'intrattenimento, sull'essere alla moda, sull'attrarre e respingere al tempo stesso. Dove le case di piacere, oltre a essere ritrovo di gaudenti in cerca di divertimenti, si trasformavano in veri e propri salotti. Vi si incontravano mercanti, attori, letterati, artisti, editori e aristocratici in incognito liberi del rigore formale della loro esistenza quotidiana. Lì, nell'ambiente che ruotava intorno alle oiran, le celebri etére, l'etichetta della seduzione si esprimeva attraverso un canone formale di altissima perfezione, ma al tempo stesso di naturalezza. Donne in grado di improvvisare versi in risposta ad altri lanciati loro in sfida, padrone di diversi stili calligrafici con cui inviare una risposta arguta, maestre nella composizione dei fiori come nei segreti dell'amore, in grado di sostenere o distruggere la carriera mondana di un attore o di un editore, queste "rovina castelli", com'erano anche soprannominate, dettavano le leggi della moda e del comportamento à la page".

Lo scorso 19 novembre, all'Institut Franco-Japonais di Fukuoka, Agnès Giard, giornalista di Libération, ha presentato il suo libro Dictionnaire de l'amour et du plaisir au Japon. Secondo Giard, la cultura giapponese tende a esorcizzare quanto vi è di terrificante nella vita reale (mostruose creature marine, catastrofi naturali, sofferenza e morte) dandone una rappresentazione estetica che ne trasformi la violenza in qualcosa che sia, invece, apportatore di piacere. Sarebbe questo il motivo per cui il concetto buddhista di impermanenza, originariamente intesa come causa di dolore e, pertanto, da rifiutare in vista del raggiungimento dell'illuminazione, venne utilizzato per raggiungere il fine opposto, la ricerca del piacere estetico proprio negli aspetti più effimeri della vita umana e della natura.

"...vivere soltanto per il momento, prestando piena attenzione ai piaceri della luna, della neve, dei fiori di ciliegio e delle foglie di acero, cantare canzoni, bere vino e provar piacere soltanto nel fluttuare, fluttuare senza curarsi minimamente della povertà che grida in faccia e rifiutare di lasciarsi prendere dalla malinconia, fluttuare lungo la corrente del fiume come un secco guscio di zucca: ecco cosa intendiamo per ukiyo" (Asai Ryoi, morto nel 1691, Ukiyo monogatari: Racconti del Mondo Fluttuante).

Per saperne (e vedere) di più:

Il video è stato girato allo Yusentei Garden di Fukuoka, fatto costruire nel 1754 dal signore feudale Tsugutaka Kuroda. Il nome significa "luogo in cui una sorgente è amica" e pare derivi dai versi di Kusesanmi Minamoto Michika: "Ho costruito questo riparo estivo accanto ad una sorgente, le cui acque sgorgano anche quando la calura è insopportabile."

mercoledì 20 ottobre 2010

Il coniglio



Mi lascio alle spalle l'afosa estate della pianura cuneese risalendo in auto la strada statale 22 della Valle Maira. E' pomeriggio, sono solo e non ho una meta. Procedo ai cinquanta all'ora, in cerca di uno spunto per una sosta.
Fermo l’auto a Lottulo e scendo a leggere un’iscrizione posta all’ingresso del paese: «Eroico presidio della valle subì sterminio e distruzione maggio 1551 saccheggio e incendio gennaio 1553 passò in feudo ai Gioia di Asti 1601». Fino a quella data la confederazione dell’alta valle, di cui Lottulo era il primo comune, era riuscita a difendere la sua indipendenza dall’espansione del Ducato di Savoia.
Riparto e subito rallento per osservare, sulla mia sinistra, due borgate. Imbocco una strada sterrata per raggiungerle.
Oltrepasso la prima, la cui architettura non è interessante. Della seconda, invece, mi attira un affresco intravisto sulla facciata di una casa.
Sceso dall’auto, mi accorgo con sorpresa che la borgata non è disabitata: un vecchio è seduto sull’uscio di casa. Mi dirigo verso di lui, lo saluto e gli spiego che sono interessato alla pittura popolare di montagna.
- Vede questo campo – mi risponde indicando una lunga striscia di terreno – una volta lo tenevo a fieno e lo tagliavo tutto da solo. Ora non ce la faccio più. Vuole mica comprarlo? Glielo vendo, se vuole, tanto mia figlia fa la vigilessa a Saluzzo.
- No, grazie. Ma lei vive qui da solo?
- C’è anche mio fratello più giovane; vive in un’altra casa, là dietro.
Mi allontano in quella direzione, con la scusa dell’affresco. Curiosando fra le case, mi imbatto nel fratello del vecchio. Ha le mani insanguinate.
- Ho appena ammazzato un coniglio.
- Lei vive qui?
- Sì, ci siamo solo più io e mio fratello. Una volta era un paese pieno di gente. Pensi che avevamo anche chiesto di avere un parroco, sarà stato centocinquanta anni fa. Anche l’altra borgata più su lo voleva, e alla fine l’hanno dato a loro.
Sembra che racconti fatti vissuti di persona. Forse è un personaggio come Gioan Pittadè: da molti chiamato il ciabattino dei quattro soldi, da altri, più colti, identificato con l’ebreo errante, si dice nella valle che sia un uomo vecchio di mille e ottocento anni, che non può sedersi, né dormire, né fermarsi per più di tre giorni nello stesso luogo. Ogni mattina si ritrova in tasca quattro monete, che deve spendere o regalare ai poveri affinché ricompaiano il giorno seguente.
- Ma noi non abbiamo mica lasciato perdere – riprende l'uomo – Siamo andati in farmacia giù a Dronero a comprare del veleno per topi, abbiamo invitato il nuovo parroco a cena una sera e l’abbiamo avvelenato.
Fa una pausa; io non dico nulla, fisso le sue mani.
- Poi l’abbiamo seppellito, ed è finita lì. Sa, qui la legge non arriva.

giovedì 30 settembre 2010

Vostok, parte prima


Josef Binder e Signora

La stazione ferroviaria di Venezia Mestre è stata la mia porta d’Oriente. A essere precisi, sono partito da Torino Porta Nuova, ma quella è una stazione priva di sapore internazionale, essendo Parigi l’unica destinazione oltre confine che compare sui tabelloni delle partenze, mentre a Mestre gli schermi annunciano, fra gli altri, treni per Budapest, Bucarest, Wien. La sola vista di carrozze delle compagnie ferroviarie ungheresi e romene mi ha provocato una scarica di quell’ormone, di cui non conosco il nome e non posso provare l’esistenza, che il nostro organismo secerne in occasione dell’inizio di un viaggio importante.
La seconda porta l’ho varcata in Austria, nel momento in cui il treno Linz-Sommerau ha oltrepassato il Danubio: da quando, “ragazzo di mappe appassionato”, vidi per la prima volta una cartina dell’impero di Augusto, associo il nome di questo fiume alla nozione di confine, oltre il quale si apre un nuovo mondo da esplorare.
Sarà un viaggio in cui attraverserò altri confini, lungo i quali si sono fronteggiati, e spesso combattuti, impero romano d’occidente e d’oriente, austro-ungarici e ottomani, tedeschi e slavi, cattolici e ortodossi, NATO e Patto di Varsavia. Cercherò di capire quali eredità hanno lasciato quelle frontiere negli europei che hanno tenuti separati e che oggi si stanno riunendo in un pacifico esperimento politico a cui la storia non aveva ancora assistito. Avrò bisogno dell’aiuto di chi l’Est lo abita nel presente e di chi l’ha abitato nel passato; non potrò fare a meno delle loro storie né della loro Storia. In un viaggio tutti gli incontri hanno lo stesso valore e tutti sono indispensabili: persone comuni o celebri, uomini in carne e ossa o figure che sopravvivono nei ricordi, nei libri, sulle lapidi.
Ceske Budejovice, Repubblica Céca, è la prima tappa di questo viaggio. L’agenzia viaggi CKM, di fronte alla stazione ferroviaria, mi ha fornito l'indirizzo di un privat, un affittacamere. La casa risale all’inizio del Novecento, come tutto il quartiere adiacente alla stazione a cui appartiene. Tre scalini con un bidone dell’immondizia in metallo davanti alla porta d’ingresso, oltrepassata la quale ci si trova in uno spazio su cui si affacciano la porta della mia camera e quella del bagno, due rampe di scale che conducono rispettivamente al piano superiore e al giardino retrostante, e la porta dell’appartamento dei signori Binder, preceduta, lungo la parete, da un lavandino, una scarpiera e una mensola con cesti di patate e verdure colte nell’orto.
La signora Binder parla soltanto céco, il marito Josef russo e tedesco, ma non inglese. Io non conosco né il russo né il tedesco, soltanto l’inglese. La contrattazione si è ridotta all’accettazione, da parte mia, di una cifra scritta, da loro, su un foglietto. I padroni di casa hanno più di sessant’anni e, con le loro conoscenze linguistiche, riassumono la storia del loro Paese dagli anni Trenta al 1989.
Nella stanza che mi assegnano c’è tutto: una panchetta e una spazzola per pulirsi le scarpe, un angolo cottura con fornello a gas, pentola, bollitore, posate, bustine di tè, zollette di zucchero, sale, tazze, apribottiglie, un tagliere e un coltello da salame, scatole di fiammiferi, bicchieri, piatti, carta stagnola, spatola di legno, un lavandino con miniboiler, spugna, sapone, detersivo, specchio, una pianta in vaso, un asciugamano, un appendiabiti sul quale è infilzato un rocchetto di filo, un tavolino e due poltroncine, un letto con un enorme cuscino e un piumone, un altro tavolino con una radiosveglia sintonizzata su una stazione rock. A una parete è appesa una mensola su cui ci sono due origami, un sasso e una piantina che cresce in un bicchiere d’acqua. La signora Binder ha decisamente il gusto per le piccole attenzioni.
Nel quotidiano italiano che mi è rimasto nello zaino leggo il coccodrillo di Gina Lagorio e ciò che più mi colpisce è il riferimento al libro che lei ha scritto dopo la morte del marito per esprimere ciò che non era riuscita a dirgli in vita. Lui era morto quando, quarantenni, presi forse dalle incombenze quotidiane, rimandavano quei discorsi che, incautamente, credevano di poter fare da vecchi. Ho fatto lo stesso ieri mattina, a Torino, con una donna con cui era bello passeggiare senza dire nulla, semplicemente godendo della sua bellezza e della sua presenza. È anche per questo motivo che si rinviano le parole, per non interrompere momenti di serenità.

mercoledì 29 settembre 2010

Vostok, parte seconda



Le malelingue

La madre di Egon Schiele era nata a Cesky Krumlov, cittadina che ha trasformato uno dei palazzi del suo centro storico nell’Egon Schiele Art Centrum. Il padre, lo zio e il nonno del pittore erano ferrovieri, pionieri delle costruzioni e capistazione, presso le ferrovie lavorava la sorella maggiore Melanie e ingegnere ferroviario era pure il tutore che fu nominato dopo la prematura morte del padre. Inevitabilmente, anche Egon venne avviato a studi tecnici, prima che alcuni insegnanti lo incoraggiassero a optare per le arti. Ormai più che ventenne, comunque, sbalordiva i suoi ospiti riproducendo alla perfezione «il sibilo del vapore, il fischio dei segnali, lo sferragliare delle ruote, i sussulti delle rotaie, lo stridere degli assi e delle molle, gli sbuffi della partenza e lo stridere metallico dell’acciaio dei freni», come scrive in una lettera del 1913 il critico d’arte Arthur Roessler.
Nel 1910, a vent’anni, si stabilì a Cesky Krumlov e prese in affitto un atelier con il suo amico Erwin Osen. Pochi mesi prima aveva scritto al suo futuro cognato Anton Peschka: «Vorrei andarmene da Vienna, subito. Com’è brutto qui. La gente è invidiosa e infida. I colleghi di una volta mi guardano con occhi falsi. A Vienna c’è ombra, la città è nera: tutto è malato. Desidero essere solo. Voglio andare nella foresta boema. Maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre. Voglio vedere cose nuove e le voglio studiare; voglio assaggiare l’acqua cupa, voglio vedere degli alberi incrinati, aria selvaggia, voglio osservare con stupore siepi coperte di muffa, voglio vedere come tutto questo vive; voglio vedere giovani boschetti di betulle e voglio sentire le foglie tremolanti; voglio vedere luce, sole e godere della rugiada delle valli notturne umide e azzurrognole; vorrei cogliere il guizzo dei pesci dorati, vedere formarsi nuvole bianche, vorrei parlare ai fiori.»
Durante quel soggiorno Schiele disegnò soprattutto sé stesso e l’amico Erwin, entrambi generalmente nudi, ma anche Krumlov posò per i suoi quadri. Riprese il tema della città morta, sfruttato da simbolisti e decadentisti alla fine del secolo precedente, e lo rielaborò per esprimere un proprio stato d’animo, come nell’opera dall’eloquente titolo Dolore universale, realizzata appunto nel 1910 e in seguito distrutta. Non dipingeva città nere e malate per registrare compiaciuto il loro disfacimento e offrirlo all’impietoso confronto con la loro passata opulenza; piuttosto, esperto nell’arte dell’autoritratto, si confermava sapiente utilizzatore di ogni tipo di specchio, servendosi degli edifici per riflettere la propria tristezza. Negli anni seguenti le case di Krumlov comparvero in vari quadri intitolati Città morta e, esplicitamente, in Paesaggio di Krumau del 1916.
Nel 1911 Schiele affittò nuovamente una casa a Krumlov e iniziò a convivere con Wally Neuzil, sua modella diciassettenne. Ritraeva frequentemente adolescenti nude o semivestite e questa abitudine suscitò le lamentele dei concittadini, che già disapprovavano la convivenza con Wally. Le scene di autoerotismo, ritratte per esempio nel Nudo femminile sdraiato per metà del 1910, erano uno dei suoi temi preferiti. La coppia fu costretta ad andarsene da Cesky Krumlov nello stesso 1911. Si stabilirono a Neulengbach, vicino a Vienna, ma non trovarono pace. Schiele, a causa della convivenza con la giovane, venne accusato di aver traviato, sedotto e rapito una minorenne, e quindi arrestato, incarcerato per tre settimane e processato. Al termine della vicenda giudiziaria le accuse furono ritirate, ma il pittore venne comunque condannato a tre giorni di reclusione per l’immoralità dei suoi disegni e per aver permesso ai compagni di scuola delle sue modelle di entrare nell’atelier. Erano stati proprio quei ragazzini a raccontare in giro quali fossero i soggetti dipinti da Schiele e a far scattare, di conseguenza, la denuncia.
Le carrozze del treno che mi riporta a Ceske Budejovice non sono recenti, ma molto pulite e si viaggia in assoluta puntualità, nessuno dei passeggeri alza la voce e nessuno usa il telefono cellulare. Molti, sia ragazzi che adulti, viaggiano con bicicletta, grandi zaini e attrezzatura da campeggio verso le località di montagna pubblicizzate nelle carrozze e nelle sale d’aspetto. I passaggi a livello non hanno sbarre, soltanto un semaforo, e gli automobilisti non passano con il rosso, neanche se il treno si è fermato qualche decina di metri prima dell’incrocio per far salire o scendere qualcuno.
Si viaggia fra campi di cereali e foreste di conifere a cui si sovrappone spesso un cielo plumbeo: la bandiera della Repubblica Céca dovrebbe essere a strisce orizzontali, gialla, verde e grigia. Al posto dello stemma che talvolta campeggia al centro delle bandiere, ci potrebbe stare la sagoma di un villaggio, con l’affusolato campanile che spesso, all’orizzonte, come una spilla aggancia la fascia gialla alla grigia e comprime la verde.
Nella lettera a Peschka, Schiele aveva aggiunto: «Vorrei correre lontano senza fermarmi su monti rotondi coperti di prati, attraverso ampie pianure; vorrei baciare la terra ed odorare i morbidi e caldi fiori di muschio. Allora io stesso potrò creare delle forme così belle: campi colorati…»

martedì 28 settembre 2010

Vostok, parte terza



Il vigore della natura

«Il disegno è una chiave per accedere alla conoscenza e alla padronanza dei principi fondamentali della comunicazione», diceva Friedl Dicker, che fu docente del Bauhaus e una degli artisti e scienziati ebrei che nel campo di concentramento nazista di Terezin cercarono di garantire ai bambini deportati un’istruzione e, con ciò, isolarli dalla barbarie. Quanto rimane dei loro disegni è esposto nella sinagoga Pinkas di Praga e, inevitabilmente, ci fa pensare a ciò che ci siamo persi con la loro morte.
Il Municipio ospita una mostra sulla Secessione viennese, sottolineando la partecipazione degli artisti cechi a questo movimento artistico. Nel 1899 Felician von Myrbach, il direttore della Scuola di Arti Applicate di Vienna, incluse alcuni giovani artisti, fra cui Koloman Moser, nello staff dell’istituto e uno dei cardini del corso di studi divenne lo studio delle strutture organiche, in particolare delle piante, e la loro stilizzazione. Negli studi di composizione risultò, quindi, indispensabile la capacità di ricondurre la rappresentazione delle piante e degli animali alle loro forme fondamentali. Le conoscenze e le abilità di maestri quali Moser e Josef Hoffmann fluirono, attraverso gli allievi che essi diplomarono, nelle scuole di arti applicate delle terre ceche e trovarono una prima realizzazione industriale attraverso la ditta Prag-Rudniker. Gli stretti contatti con il mondo produttivo e gli scambi culturali fra i musei e le scuole di specializzazione disseminati nei territori dell’Impero erano i punti di forza del sistema scolastico-artistico austro-ungarico. Nel 1903, ispirandosi al movimento inglese Arts and Crafts, Hoffmann (nato a Pirnitz, l’attuale Brtnice in Moravia, e cresciuto a Brno), Moser e l’industriale Fritz Waerndorfer costituirono il Wiener Werkstätte (WW), con l’obiettivo di realizzare l’opera d’arte “totale”. Ne scaturirono oggetti dalle linee austere e minimaliste, fra i quali mobili, gioielli, vetri, tessuti e ceramiche; filiali furono aperte a Karlovy Vary e Mariánské Lázně (oggi in Repubblica Céca), Zurigo e New York. Fra i giovani talenti promossi da Hoffmann ci fu Schiele, autore di alcune delle celebri cartoline del WW.
Le vicende dipanate dalla mostra si interrompono con la nascita della Cecoslovacchia indipendente, in seguito alla quale i legami con Vienna vennero recisi piuttosto che rafforzati.
Prima della Grande Guerra il Wiener Werkstätte fece in tempo a influenzare un gruppo di artisti praghesi, fra i quali Gočar e Janák, che crearono un movimento artistico che si manifestò omogeneamente nelle arti figurative e in quelle applicate, nell’architettura e nella grafica. Una collezione delle loro opere, riunite sotto il titolo di Cubismo Céco, si può vedere alla Casa della Madonna Nera, un edificio, progettato proprio da Josef Gočar nel 1911, che proclama la centralità delle forme poligonali cristalline e l’esclusione dell’angolo retto, il che è piuttosto ironico per dei cubisti. Con loro buona pace, al primo piano del palazzo, il Grand Cafè Orient serve una torta di forma quadrata, una specie di ciambella il cui buco, pure, è quadrato.
Nel vecchio cimitero ebraico decine di migliaia di persone sono state sepolte in un quadrato di terra di sì e no trenta metri di lato, strato di terra su strato di terra, sopraelevando man mano sulla nuova superficie le lapidi. Rispetto al camminamento che la circonda, perciò, l’area delle sepolture ha assunto la forma di un panettone; fra le lapidi ammassate crescono alberi rigogliosi, a esse si aggrappano lumachine e rampicanti e non mancano i frutti di bosco. I periodici spostamenti e gli agenti atmosferici hanno reso le lapidi informi, simili alle pietre che si possono trovare in montagna in una foresta di alberi secolari, e hanno cancellato i nomi che vi erano stati scolpiti, vanificando le accademiche distinzioni fra umano e naturale o, peggio, fra umano e umano. Complice la mia ignoranza dei caratteri ebraici ancora leggibili, il cimitero mi appare come l’ápeiron teorizzato da Anassimandro, in cui, dopo la morte, si supera finalmente la nostra individualità, la quale, facendoci rimpiangere l’unione originaria con il Tutto, tanto ci fa soffrire di solitudine nel corso della vita.
Sono permeate del vigore della natura le forme create dal campione dell’Art Nouveau céca, Alfons Mucha, la cui fama è legata ai manifesti degli spettacoli teatrali di Sarah Bernardt, che egli disegnò, a Parigi, fra il 1894 e il 1900. In quello della Medea fa indossare un elaborato bracciale a forma di serpente all’attrice, la quale ne rimase a tal punto incantata da ordinarne uno identico a George Fouqet, il futuro datore di lavoro di Mucha. Nell’affiche per la tipografia Cassan Fils, invece, un bordo costituito da una miriade di occhi rappresenta i lettori.
A diciannove anni Mucha viveva a Vienna, era pittore di scene teatrali e venne notato dal conte Khuen-Belassi, che ne sponsorizzò gli studi a Monaco di Baviera. Negli anni Novanta incontrava nel suo studio parigino scrittori, musicisti e pittori, fra i quali Gauguin, che si fece fotografare mentre suonava il piano senza indossare i pantaloni; nello stesso studio faceva proiettare i primi film dei fratelli Lumière. Eppure, due decenni più tardi, questo raffinato cosmopolita si tramutò in un ardente nazionalista. Come è possibile? I nazionalismi ottocenteschi e novecenteschi hanno causato immani sciagure e sono stati secondi solo alle religioni come fonte di odio e di guerre. Non è forse preferibile vivere in uno spazio politico che sia il più ampio possibile e che comprenda il maggior numero di popoli e di città, in modo da moltiplicare le opportunità di studio, lavoro e crescita dei suoi cittadini, piuttosto che in Stati nazionali che costringono i propri abitanti in ambienti culturali miseri e soffocanti?

lunedì 27 settembre 2010

Vostok, parte quarta


You cannot sedate all the things you hate


Sono a Łódź per rivedere un amico, Jarrek, che conobbi nel 2000 in India. Invitati a partecipare a un convegno di filosofia, avevamo preso, senza saperlo, lo stesso aereo da Amsterdam a Calcutta. Atterrati alle tre del mattino, avremmo dovuto trovare ad attenderci un’auto del Ramakrishna Mission Institute of Culture. All’uscita dell’aeroporto, però, non c’era traccia dei nostri ospiti indiani e fu così che ci conoscemmo, girovagando in un parcheggio alla ricerca della loro vettura. Non trovandola, prendemmo un taxi insieme per raggiungere Golpark e attraversammo una città già in pieno fermento per l’arrivo delle merci che riforniscono i mercati e i negozi.
Cresciuto agnostico, negli anni Novanta Jarrek ha studiato in Svezia dove è diventato luterano. Oggi in Polonia il suo punto di vista, protestante e liberale, è eccentrico e, pertanto, massimamente prezioso. Ai lavori del convegno alternammo lunghe conversazioni e passeggiate; un pomeriggio il monsone ci colse nel centro della città, che venne rapidamente allagata. Le strade scomparvero sotto mezzo metro d'acqua, ma trovammo un audace tassista che in serata ci riportò in Istituto. Lì, con le scarpe in mano e i pantaloni rimboccati sopra il ginocchio, capii perché gli edifici di Calcutta hanno il portone d’ingresso rialzato di alcuni gradini rispetto al piano stradale.
Questa volta la sistemazione è molto più semplice: Jarrek viene ad aspettarmi alla stazione e mi conduce a casa sua, dove ci aspettano Magda, sua moglie, e Szymon, il loro bambino. Il loro appartamento si trova in uno dei parallelepipedi alti una decina di piani che, a migliaia, contornano le città dell’impero sovietico. Nella Repubblica Céca non mi avevano impressionato negativamente, perché erano generalmente tinteggiati con colori gradevoli e circondati da aiuole curate e alberi d’alto fusto. In Polonia, invece, l’incuria mette a nudo la scarsa qualità dei materiali da costruzione. I miei amici sono entrambi docenti universitari ma i prezzi delle case sono alti anche per loro che, quindi, hanno ripiegato su un quartiere periferico. Gli spazi comuni come il vano scale non sono di proprietà dei condomini e sono lasciati nel totale abbandono; tutta la cura dei proprietari per le proprie abitazioni si manifesta dietro le pesanti porte degli appartamenti.
Con Magda e Jarrek passo tre giorni a parlare: anche se ci siamo scritti spesso, sono cinque anni che non ci incontriamo e le questioni da discutere con la massima urgenza ci sembrano infinite. La sera stiamo a tavola fino a tardi, bevendo vodka żubrówka (quella aromatizzata con l’erba preferita dal bisonte europeo che vive nel parco nazionale di Białowieża) e krupnik, un liquore al miele, ma l’euforia è dovuta, soprattutto, all’intesa che ritroviamo confrontando la fallita defascistizzazione delle stanze del potere nell’Italia del dopoguerra con la mancata desovietizzazione nella Polonia contemporanea, il clientelarismo economico e politico, lo scarso senso civico e il disinteresse per il bene pubblico nei due Paesi. Mi raccontano dei timori che la Russia ancora incute nell’opinione pubblica polacca, dell’astio verso la Germania che è ancora diffuso, dell’appoggio che la Polonia ha dato alla pacifica rivoluzione ucraina del 2004, ricevendo per questo dalla Russia accuse di espansionismo, dell’atteggiamento superficiale di molti polacchi nei confronti dell’Unione Europea, vista soltanto come portatrice di benessere economico e di centri commerciali. Jarrek contesta la dicitura “Europa Orientale” riferita a Polonia e Repubblica Céca, nega che la Russia sia parte dell’Europa, mi spiega che, una volta occupato il suo Paese, è stato con l’abolizione della proprietà privata che i sovietici hanno sradicato dai polacchi qualsiasi interesse personale e, quindi, la possibilità stessa di rivendicazioni democratiche. Inevitabilmente, si finisce a parlare di Locke e del diritto alla proprietà, del legame fra protestantesimo e democrazia, del familismo amorale italiano e di quello polacco, delle prime riforme scolastiche avviate in Polonia, che in Italia rimarranno sogni nel cassetto.
«Non possiamo sedare tutte le cose che detestiamo», è scritto su un muro nei dintorni di Wrocław. Quindi ne parliamo, confidando di riuscire, con questa specie di esorcismo, ad alleviarne il peso.

domenica 26 settembre 2010

Vostok, parte quinta





Isolamento




Da Lodz, via Tezew, raggiungo Kaliningrad, la città russa che, dopo l’allargamento del 2004, si trova circondata da ogni lato da Paesi dell’Unione Europea. L’importanza di Kaliningrad per la Russia risiede nel suo porto, che si affaccia sul Mar Baltico e d’inverno, unico fra i porti occidentali russi, non è bloccato dai ghiacci. La sua peculiarità, tuttavia, sta nel fatto che è una città che ne ha completamente sostituita un’altra preesistente. In questo medesimo luogo, infatti, fino al 1945 sorgeva la prussiana Königsberg. Il 6 aprile 1945 l’Armata Rossa si presentò alle porte della città e, dopo un primo attacco condotto con l’artiglieria e l’aviazione, il generale Vasilevsky intimò la resa alla guarnigione tedesca, che rispose esponendo uno striscione con la scritta «Non ci arrenderemo mai». Iniziò, così, la battaglia per le strade della città. I sovietici ebbero la meglio alle 9,30 del 9 aprile, quando il generale tedesco Otto Lasch accettò di arrendersi; trasferito in URSS come prigioniero di guerra, vi rimarrà fino al 1955. Durante l’assalto erano morti 42.000 fra soldati e ufficiali tedeschi e 60.000 sovietici. I bombardamenti avevano raso al suolo tutti gli edifici; le rovine del castello duecentesco vennero abbattute con la dinamite, come è documentato dalle fotografie esposte nel museo civico. La cattedrale, peraltro di modeste proporzioni, l’adiacente tomba di Immanuel Kant e la stazione ferroviaria sono le uniche strutture sopravvissute in superficie alla battaglia. Nel sottosuolo, invece, si può visitare il bunker in cui era installato il comando del generale Lash. All’ingresso, una guida mi chiede se sono tedesco e alla mia risposta negativa mi indica con sufficienza le didascalie in inglese che ricostruiscono le fasi della battaglia. Poco dopo, compare una comitiva di turisti tedeschi e la guida, rallegrata, li accompagna nella visita raccontando gli avvenimenti nella loro lingua, con un compiacimento che sembra nascere dalla consapevolezza di infierire sul nemico sconfitto. Per mantenere la presa sulle masse il Potere non esita a sostituire le proprie icone: la statua di Lenin è stata rimossa dalla piazza principale, ufficialmente perché in cattivo stato di conservazione, ma sulla stessa piazza è in fase di ultimazione un’imponente chiesa ortodossa con le cupole dorate. È rimasta, invece, la statua dedicata ai cosmonauti sovietici, presenti anche nelle fotografie esposte al museo civico, una delle quali è intitolata «Viva la amistad sovietico-cubana!» e ritrae un equipaggio misto. I negozi, compresi quelli di alimentari, sono concentrati intorno al mercato coperto e nelle strade del centro è pressoché impossibile acquistare del cibo, anche perché i ristoranti sono rari. Ci sono, però, molti chioschi che vendono birra e sembra quasi obbligatorio per gli uomini, specie se giovani, camminare tenendone una bottiglia in mano. Alla Yuzhni Vokzal, la stazione sud, di Kaliningrad ho acquistato un biglietto per San Pietroburgo. Imprevidente come il mitico Epimeteo, avevo immaginato, osservando le linee ferroviarie disegnate sulla mia cartina della zona, che il treno avrebbe attraversato le Repubbliche Baltiche, ovvero avrebbe seguito il tragitto più diretto per raggiungere San Pietroburgo. Non ho chiesto conferma né in biglietteria né ai poliziotti che mi hanno controllato i documenti prima della partenza, e nemmeno al personale del treno. La prima fermata è Vilnius, le mie convinzioni reggono. Contrariamente a quanto pensavo, il treno non è affatto inaccessibile durante il tratto lituano. Nello scompartimento che occupo, infatti, prendono posto una signora anziana dal viso molto dolce, la figlia e il nipote di sei anni. Sono russi, ma le due donne hanno vissuto in Lituania fino al 1989. Lasciata Vilnius, il treno piega verso sud-est e poco dopo mi trovo alle prese con una guardia di frontiera bielorussa che mi invita a scendere dal treno con tutti i bagagli. Le mie compagne di scompartimento mi traducono in inglese il discorso del poliziotto: il treno passerà per Minsk e io non ho il visto di transito per la Bielorussia, pertanto devo scendere e ritornare a Vilnius. La stazione di frontiera bielorussa è costituita da due piccole costruzioni, una ospita la biglietteria e l’altra la polizia di frontiera, e non è vicina a una città o a un paese. I poliziotti mi accompagnano alla loro stazione, mi fanno sedere su una panca e mi requisiscono il passaporto. Pochi minuti dopo, arriva una poliziotta che mi spiega, in inglese, la mia situazione: non posso fare il visto alla frontiera, devo attendere il treno per Vilnius delle 21 e tornare in Lituania. Mi aiuta a cambiare i rubli e comprare il biglietto, ma non mi restituisce il passaporto. Non mi è permesso allontanarmi dalla stazione e non ci sono nemmeno treni in transito. Se ce ne fossero potrei almeno passare il pomeriggio guardando i loro passeggeri arrivare e partire. Un paio di minuti prima delle 21 i poliziotti mi accompagnano al treno e soltanto lì mi restituiscono il passaporto. Il trenino che mi riporta in Unione Europea è quanto di più diverso ci si possa immaginare per un collegamento internazionale fra Minsk e Vilnius: sono tre carrozze simili a una metropolitana, in cui sono affollate decine di donne con borsoni pieni di vodka, sigarette e capi di abbigliamento che venderanno in Lituania. Dalla panca sulla quale ho passato il pomeriggio non lo potevo vedere, ma accanto alla biglietteria c’è un duty free shop, dove le donne si riforniscono delle loro mercanzie.

venerdì 24 settembre 2010

Vostok, parte sesta



Liberatori


Gedimino prospekta, il boulevard centrale di Vilnius, è dedicato a Gediminas, il granduca filosofo che fondò la città nel 1323. In quei tempi, scrive Saulius Žukas, la pace religiosa regnava nella città e nel territorio. La tradizione della tolleranza ereditata dai tempi pagani e la difesa delle minoranze religiose da parte dell’aristocrazia fecero della Lituania un centro europeo del liberalismo. Nel 1563 fu ufficialmente proclamato, per la prima volta in Europa, il privilegio che riconosceva a tutti uguali diritti di professare e propagare la propria fede. Il documento diventò legge dello Stato e a Vilnius prosperarono le comunità calvinista e luterana, cattolica e ortodossa. La libertà di stampa era assoluta e la città offrì riparo a Ivan Fiodorov, il primo tipografo russo, costretto ad abbandonare Mosca dalla folla che, istigata dai monaci ortodossi amanuensi, gli aveva distrutto la tipografia. L’atmosfera tollerante favorì nel Seicento lo sviluppo della cultura ebraica, espressione di una comunità che i Granduchi avevano invitato a stabilirsi nel Paese nel XIV secolo. Nei dintorni di Vilnius giunsero anche i Caraimi, un popolo di origine turca che aveva abbracciato la religione ebraica di tradizione più antica, precedente all’introduzione del Talmud. Un quartiere di Vilnius, poi, ospitava i Tartari e le loro moschee, nelle quali essi tenevano esposti ritratti del granduca Vytautas, che li aveva chiamati in Lituania a servire nei reggimenti di cavalleria del suo esercito.
Sul prospekta, all’altezza di Lukiškiy aikšte, una piazza fino ad alcuni anni fa dominata dalla statua di Lenin, si trova un palazzo, costruito nel 1899, che è sempre stato scelto come residenza dagli invasori della Lituania: quartier generale dei Polacchi dopo la prima guerra mondiale, quindi della Gestapo e, infine, del KGB. Di quest’ultimo, nei sotterranei, si possono visitare le prigioni. Infernale è la stanza della tortura con l’acqua: al centro della cella c’è un disco metallico di neanche mezzo metro di diametro, rialzato rispetto al pavimento e collegato a un motore sottostante; il detenuto veniva posto sul disco, circondato da acqua gelida, e fatto ruotare su se stesso finché perdeva l’equilibrio e cadeva in acqua; la procedura era ripetuta fino al cedimento del prigioniero. Ora il pianterreno dell’edificio ospita il Museo delle Vittime del Genocidio, in cui è allestita una mostra sulla resistenza antisovietica. La prima reazione dei lituani all’occupazione da parte dell’Armata Rossa venne organizzata dai suoi diplomatici in servizio all’estero: il 19 settembre 1940 essi si riunirono a Roma e formarono un Comitato Nazionale Lituano (LTK) che avrebbe dovuto coordinare gli sforzi per la liberazione del Paese. Le divisioni interne fra filo-tedeschi e filo-britannici, però, paralizzarono questo embrione di governo in esilio. Il 17 novembre, a Berlino, nacque, invece, il Fronte degli Attivisti Lituani (LAF), il quale organizzò la rivolta del giugno 1941, coordinandosi con i piani tedeschi di invasione dell’URSS. Dopo tre giorni di insurrezione partigiana, il 26 giugno l’esercito tedesco entrò in Lituania, accolto dalla popolazione con lacrime di gioia e lanci di fiori. L’Armata Rossa rioccupò il Paese il 13 luglio 1944 e diede inizio a una metodica repressione di qualsiasi tentativo di resistenza. I partigiani, allora, cercarono rifugio nelle foreste, che rimasero le loro basi operative fino al 1953.
Del periodo dell’occupazione nazista non si parla e per trovare qualche informazione mi sposto al Museo Ebraico Vilna Gaon. All’inizio del Novecento Vilnius era uno dei principali centri ebraici in Europa e aveva dato i natali a numerosi sionisti, a esperti studiosi del Talmud e della Bibbia e al pittore Chaim Soutine. Nel 1941 l’antisemitismo era diffuso e insisteva sulla presenza di alcuni ebrei fra i bolscevichi lituani che collaboravano con gli occupanti sovietici. Le uccisioni di cittadini ebrei e il furto dei loro beni cominciarono ancor prima dell’arrivo dell’esercito tedesco e le SS non faticarono a trovare collaborazionisti, alcuni dei quali si autodefinirono “Combattenti per la Libertà”, esattamente come avrebbero fatto i partigiani antisovietici alcuni anni più tardi. I curatori del museo spiegano che «i nazisti vennero accolti come i liberatori della Lituania, meritevoli dell’eterna gratitudine del Paese e della Chiesa cattolica». Un ristretto numero di membri del clero condannò il comportamento dei lituani, tuttavia nessun esponente delle autorità religiose fece nulla per fermarli. L’atteggiamento del governo provvisorio fu di benevola indifferenza. Nel 1995, comunque, è stata aperta la Galleria dei Giusti della Lituania, in cui sono ricordati i 2300 cittadini che aiutarono gli ebrei durante l’occupazione nazista.
Il Museo ospita una mostra sugli ebrei lituani che combatterono contro i nazisti: gruppi armati di resistenti sorsero, fra il dicembre 1941 e il gennaio del 1942, nei ghetti di Vilnius e Kaunas, dediti soprattutto ad azioni di sabotaggio. Nei due anni seguenti circa 1.800 ebrei fuggirono dai ghetti e dai campi di lavoro, si rifugiarono nei boschi e si unirono ai partigiani. Leggendaria è diventata la fuga del 15 aprile 1944 dal campo di sterminio di Paneriai: ottanta prigionieri scapparono attraverso un tunnel che avevano scavato nella terra a otto metri di profondità. Soltanto undici di essi riuscirono a raggiungere le basi dei partigiani. Come gli altri fuggiaschi, entrarono a far parte della resistenza lituana, organizzata in quattro distaccamenti: Il Vendicatore, La Vittoria, La Lotta e Morte al Fascismo. In seguito, i partigiani confluirono nella XVI Divisione Lituana dell’Armata Rossa. Quattro di essi, Vulf Vilenski, Kalman Shur, Grigorij Ushpol e Berel Cindel, ricevettero il titolo di “Eroe dell’Unione Sovietica” per i loro meriti bellici.
Anche Napoleone, come spiega una mostra temporanea allestita al Museo Nazionale, aveva suscitato l’entusiasmo dei lituani. Il loro Stato si era costituito a metà del XIII secolo, riunendo i samogiziani, i semigalli, i curi, i suduvi, gli iotvingi e una parte dei seli, e, assunta la forma di Granducato, era diventato uno dei più estesi Stati d’Europa; nel 1398, infatti, aveva i suoi confini meridionali presso la Crimea e a est si estendeva fino a circa cento chilometri da Mosca. Nel XVIII secolo, però, era stato occupato da russi, austriaci e prussiani. Fin dalle vittorie francesi contro la Prussia nel 1807, perciò, l’aristocrazia lituana si era espressa a favore di azioni militari in appoggio a Bonaparte, ma fu frenata dall’accordo di pace da questi firmato con lo zar e dovette attendere il 1812 per vedere Napoleone attaccare l’impero russo. L’esercito francese attraversò il fiume Nemunas a Kaunas il 24 giugno, il 28 giunse a Vilnius, che divenne la sua base amministrativa, e il primo luglio Bonaparte creò il governo provvisorio del Granducato di Lituania, formato da un gruppo di cittadini che comprendeva anche i rivoltosi indipendentisti del 1794. L’8 dicembre, dopo la disastrosa sconfitta della Berezina, Vilnius fu attraversata dai francesi in ritirata, ma le aspettative di libertà eccitate da Napoleone animeranno ancora le ribellioni antizariste del 1831 e del 1863.

mercoledì 22 settembre 2010

Vostok, parte settima


Singing Revolution


Il Museo dell’Occupazione Sovietica di Riga mette in risalto alcuni fatti storici, primo fra tutti l’alleanza fra Hitler e Stalin che si tradusse, dopo il patto von Ribbentrop-Molotov, nella fine dell’indipendenza delle Repubbliche Baltiche, occupate nel 1940 dall’Armata Rossa. I sovietici e i nazisti, che prenderanno il loro posto nel 1941, avevano piani simili: sfruttare e colonizzare i tre Paesi, russificandoli o germanizzandoli. I tedeschi, però, furono più accorti e si accattivarono le simpatie della popolazione ripristinando la piccola proprietà privata e cavalcando l’odio nei confronti degli ebrei bolscevichi. Si sottolinea anche l’atteggiamento degli Alleati che, dopo il 1945, abbandonarono le tre repubbliche al loro destino, e della Svezia, la quale rimpatriò numerosi fuoriusciti, consegnandoli nelle mani dei sovietici. Il periodo postbellico fu segnato dalla deportazione nei gulag degli oppositori del regime e il museo espone un oggetto significativo: un bidone metallico che i deportati erano costretti a utilizzare come gabinetto, con il bordo rozzamente tagliato in modo da rendere scomodo e pericoloso servirsene.
A Riga conosco un mio coetaneo che fu protagonista dell’indipendenza ottenuta dalla Lettonia nel 1991. Ci incontriamo negli uffici del Fronte Popolare, il raggruppamento di forze politiche che guidò il Paese verso l’indipendenza dall’Unione Sovietica, e mi racconta dell’appoggio delle comunità di lettoni emigrati in USA, Gran Bretagna, Svezia e Australia, del ritorno di alcuni di essi nel periodo decisivo, del mancato riconoscimento dell’incorporazione della Lettonia nell’URSS da parte di una ventina di Stati (fra i quali non figura l’Italia), che ha costituito un prezioso riferimento giuridico per il movimento indipendentista.
Non solo il Fronte Popolare riuscì, come il CLN italiano, a riunire forze politiche eterogenee, ma seppe coordinare le sue azioni in Lituania, Lettonia ed Estonia e mantenere fino alla fine un carattere non-violento. Alla fine degli anni Ottanta, per esempio, le principali riunioni dei sostenitori dell’indipendenza dell’Estonia avvennero in occasione dei festival nazionali della canzone, a cui parteciparono migliaia di persone che cantavano motivi indipendentisti. Il 23 agosto 1989, in occasione del cinquantesimo anniversario del patto von Ribbentrop-Molotov, fu organizzata una catena umana che unì le tre capitali, con un’estensione di seicento chilometri e la partecipazione di due milioni di persone. In Estonia il processo che nel 1991 portò al distacco dall’URSS avvenne all’interno delle istituzioni, cioè Governo, Soviet Supremo dell’Estonia e Partito Comunista dell’Estonia, e fu merito del Fronte Popolare, il quale seppe coalizzare tutta la popolazione estone che costituiva la grande maggioranza degli abitanti della Repubblica Socialista Sovietica Estone.
Il museo civico di Tallinn ricostruisce, attraverso filmati originali, i passaggi che portarono all’indipendenza: l’introduzione dell’estone come lingua ufficiale, il cambio della bandiera e della moneta. Con onestà, vengono mostrate anche le proteste della minoranza russa che non voleva la separazione dall’URSS. Un gentile impiegato del museo mi conferma il ruolo fondamentale che Gorbačëv ebbe nell’avviare la catena di eventi che condusse all’indipendenza delle Repubbliche Baltiche. Già Jarrek, in Polonia, aveva sottolineato questo aspetto, mentre, in un’edicola, fissavamo attoniti la pubblicità di una serie di DVD che celebravano papa Wojtyla come unico artefice della disgregazione dell’impero sovietico. Il museo espone anche le foto delle barricate erette nel gennaio 1991, quando si temeva una repressione militare sovietica, della dichiarazione d’indipendenza del 20 agosto e della colonna di carri armati che si era messa in marcia per impedirla, poi richiamata da Yeltsin.
In Lettonia, non tutti i conti con il passato sovietico sono stati chiusi. In questi giorni le cronache politiche riportano il caso del Presidente della Commissione Affari Esteri del Parlamento, Aleksandrs Kiršteins, il quale è stato costretto alle dimissioni ed espulso dal suo partito per avere dichiarato che la comunità ebraica non dovrebbe più comportarsi come nel 1940, quando «diede il benvenuto» ai carri armati sovietici. Kiršteins è noto anche per le sue polemiche prese di posizione nei confronti della Russia e della minoranza russa in Lettonia. Lo stesso tracciato del confine con la Russia, del resto, non è ancora definito, sebbene ora si tratti del confine orientale dell’Unione Europea. L’area contesa è la regione di Abrene, oggi abitata in prevalenza da russi. Prima della Seconda Guerra Mondiale apparteneva alla Lettonia, ma durante l’occupazione sovietica il confine fu spostato e la regione consegnata alla Russia. Il governo lettone, che sostiene la validità degli accordi di pace del 1920, e Vladimir Putin, che ha definito tale affermazione una «stupidaggine», non hanno ancora trovato un accordo.
Oggi i russi costituiscono circa un quarto della popolazione. Quelli di loro che sono nati prima del 21 agosto 1991 devono sostenere un esame per ottenere la cittadinanza lettone, a meno che non l’avessero già prima del 17 giugno 1940, data dell’invasione sovietica. All’esame bisogna dimostrare la padronanza della lingua, la conoscenza della storia lettone, della Costituzione e dell’inno nazionale. Chi non sostiene o non supera l’esame rimane un “non cittadino stabilmente residente nel Paese” e, pertanto, non ha né passaporto né diritto di voto. Se si pensa alla politica di russificazione imposta dall’URSS ai Paesi baltici, il contrappasso è evidente. Molti russi hanno deciso di provare l’esame, attirati soprattutto dalle prospettive di lavoro e di circolazione negli altri Paesi dell’Unione Europea. Dima e Zurab, due giovani sulla trentina, mi raccontano una motivazione politica: il primo vuole poter votare per influenzare le scelte del Paese, il secondo dice di sentire il bisogno di appartenere a uno Stato. Altri si rifiutano di sostenere la prova, forse per orgoglio. L’impressione che si ha nei negozi e nei ristoranti, comunque, è che i russi finiscano per svolgere i lavori meno redditizi.
Ogni anno in autunno, un piccolo vecchietto con i capelli grigi emerge dal lago Ülemiste, nei pressi di Tallinn, e, in piena notte, raggiunge i cancelli della città. Alle guardie chiede: «È finita la costruzione della città?» Le guardie devono rispondere di no, che mancano ancora molti anni, così il vecchio ritorna al lago, altrimenti, se accidentalmente rispondessero di sì, egli farebbe precipitare le acque del lago giù per le colline fino alla città, distruggendola e annegandone gli abitanti.